Lara Croft Tomb Raider: The Angel of Darkness – Recensione Tomb Raider: The Angel of Darkness

Un problema sentito da molti filosofi nel corso dei secoli è stato il divario che l’uomo avverte tra il mondo ideale ed il mondo reale, ovvero come la realtà delle cose, essendo queste molto diverse da come dovrebbero idealmente essere, provochi sofferenza per lo spirito se non un incurabile male di vivere. Lara Croft Tomb Raider: the Angel of Darkness può allora dirsi un bell’esempio di questo alto concetto, poiché considerare quello che è in relazione a quanto sarebbe dovuto essere provoca in noi un incommensurabile dolore esistenziale. Se non vi fosse chiaro, quella che state per leggere è una recensione negativa.

Gli Illuminati

La trama di Angel of Darkness mette molta carne al fuoco, troppa perché il risultato finale sia coerente e godibile. Peccato, perché lo spunto di base è intrigante, e vede intrecciarsi le vicende di Lara, braccata dalla polizia e sospettata di essere il pluriomicida detto Monstrum che ha eliminato tra gli altri il vecchio Werner Von Croy, con quelle di Kurtis Trent, discendente di una non meglio identificata stirpe di “cacciatori di Nephilim”. Secondo antiche mitologie, l’estinta razza dei Nephilim sarebbe il risultato dell’accoppiamento di esseri umani con i superiori abitanti di Thule, a volte identificati come Angeli, Ubermensch, Superuomini o Titani: approfondite ricerche in merito sarebbero state condotte dal partito Nazista durante il Terzo Reich. Nel mondo parallelo di Tomb Raider, poi, la potente setta degli Illuminati sarebbe in procinto di clonare questa razza superiore e ad assurgere al ruolo di semidivinità immortali.
Il sottotitolo “l’Angelo dell’Oscurità” si riferisce quindi sia all’essere che i nostri nemici hanno intenzione di risvegliare, sia a Lara stessa, eroina che dopo un passato di agiatezza deve ora fare i conti col suo lato più “dark”.
Le cose poi si fanno ancora più complesse: c’è il passato di Lara, il suo burrascoso rapporto con Von Croy che la tradì in Egitto, il legame dell’anziano archeologo con gli Illuminati e i mistici dipinti Obscura, l’accusa di omicidio a carico di Lara, il suo cambiamento in seguito al rischio di morte, l’aver perso tutti i suoi averi essendo ufficialmente defunta, e naturalmente il misterioso background di Kurtis, personaggio controllabile che sembra dotato di poteri paranormali…
Tutti questi elementi ed altri ancora non sono affatto ben amalgamati tra loro, e questo per un semplice motivo: Angel of Darkness, il debutto della serie di Tomb Raider su PlayStation2, sarebbe dovuto essere un videogame innovativo sotto ogni aspetto, tanto tecnico quanto narrativo e commerciale. C’era l’intenzione di far uscire una serie di episodi a prezzo ribassato, più di uno all’anno, spezzando così la storia dandole un taglio più accattivante, cinematografico e coinvolgente; probabilmente il tenore stesso della narrazione ne avrebbe giovato, ci sarebbe stata molta più attenzione per i molti aspetti che invece, per come sono andate le cose, rendono il gioco finale assolutamente disorganico e che portano la serie ad un punto morto, invece che ad una svolta. Il successivo Tomb Raider Legend considererà come mai avvenuti gli eventi di Angel of Darkness.

Lara vista da dentro

Il giudizio sulla grafica del titolo Eidos va necessariamente diviso dando sguardi separati alla sua protagonista e alle tetre ambientazioni in cui ci muoveremo. Queste ultime sono generalmente scarne, prive di elementi caratterizzanti, cromaticamente ripetitive; fatte alcune, debite eccezioni, la resa delle locations non è eccelsa, poiché abbondano semplicistici spazi chiusi da percorrere unidirezionalmente, con la scarsità grafica che consegue dall’avere ambienti banali, con fronzoli come scale a pioli e grondaie unicamente presenti se funzionali per essere adoperati. Bandito il superfluo, per lo meno le belle textures contribuiscono a salvare l’effetto estetico complessivo da una totale insufficienza, talvolta sopperendo esse sole alla mancanza di componenti tridimensionali. Dove invece è necessaria una maggior presenza di elementi solidi, come nelle missioni all’aperto, il livello di dettaglio è fortemente penalizzato: insomma, qualità e quantità sembrano essere in questo gioco valori inconciliabili.
Passando poi a dare uno sguardo a Lara Croft, notiamo che il passaggio a PS2 l’ha decisamente cambiata, sia nell’aspetto che nel look. Pur restando intaccato il sex appeal della fuggitiva, le sue curve si sono fatte meno abbondanti e più “umane”, anche probabilmente per avvicinare i due volti di Lara, cioè la protagonista del videogioco e l’attrice che la impersona al cinema. Anche l’abbigliamento della nostra amica si è poi reso più castigato: Lara indossa pantaloni lunghi, almeno in alcuni livelli.
La resa del modello poligonale del personaggio è buona, essendo esso dotato di molti dettagli sempre in tre dimensioni, come ad esempio occhiali o le rifiniture delle scarpe: assolutamente nulla di paragonabile, però, alla grandiosità grafica del James di Silent Hill 2, successo giapponese contemporaneo ad AoD. Ad ogni modo, si tratta pur sempre di uno dei primi titoli PS2, quindi è perdonabile una certa mancanza di coraggio da parte degli sviluppatori ad osare di più.
La scusante però non regge quando notiamo errori ed enormi imperfezioni imputabili a palese incuria della programmazione: anche durante le scene animate, realizzate quasi sempre con il medesimo motore grafico del gioco ma in più alta risoluzione, sono ad esempio visibili sfarfallii, elementi squadrati o non ben coesi tra loro; ma si raggiunge il picco dell’oscenità quando in-game veniamo colti di sorpresa dall’orrendo effetto di “entrare” dentro Lara Croft (non siate maliziosi) se muoviamo in un certo modo la telecamera con lo stick analogico destro. E’ possibile infatti che la visuale si sposti all’interno del personaggio, mostrandocene le cavità endogene ed i poligoni che lo compongono da una prospettiva inquietante ed insolita. In altre occasioni potrebbe capitarvi di “attraversare” il volto di Lara e ritrovarvi a guardare i suoi semisferici occhi senza palpebre, cosa che è a tratti terrorizzante, oltre che umiliante per il gioco. Credeteci, la signorina Croft sta molto meglio quando è vestita.

Cosa direbbe Shakespeare?

Al solito, le musiche generalmente scarseggiano, ma i toni udibili in concomitanza di particolari eventi ben si adattano alle atmosfere che intendono accompagnare, trasmettendoci ora sorpresa per una rinvenimento inaspettato, ora il timore di essere scoperti mentre gli aggiriamo per corridoi bui.
A differenza di quasi tutti i capitoli precedenti, in AoD la qualità della recitazione dei doppiatori italiani non è proprio altissima: e stavolta non solo per colpa della non buona traduzione della sceneggiatura dall’inglese alla nostra lingua – malcostume a ben pensarci tanto diffuso quanto incredibile – ma anche per l’oggettiva scarsa espressività dimostrata dagli attori nei momenti più drammatici o nei discorsi più concitati. Certo, la modestia di regia e animazioni non aiuta ad alzare il livello delle scene dialogate, ma il comparto sonoro sarebbe potuto essere globalmente più curato. Anche la poca attenzione nella redazione dei sottotitoli contribuisce a ritenere il gioco mediocre sia alla vista che all’udito.

Siamo noi troppo pignoli, o questo gioco è brutto?

<< “ C’era una volta…”
“…un’archeologa!”, diranno subito i miei piccoli lettori. No, ragazzi, avete sbagliato. C’era una volta un pezzo di legno. >>
Anche per chi non avesse colto la citazione tratta dal romanzo “Le avventure di Pinocchio”, di Carlo Collodi, dovrebbe esser abbastanza chiaro a cosa si allude in questa sede: a dispetto del potenziale di PS2, AoD presenta animazioni parecchio lente, scoordinate e diremmo burattinesche: risultato esattamente opposto a quanto presagiva il rivoluzionario motore grafico dinamico ed intelligente che era stato annunciato. La povertà dei movimenti è palese in riferimento alle sezioni di gioco in cui impersoniamo il nuovo personaggio, Kurtis, che si muove in maniera goffa e sgraziata; ma nemmeno Lara ne esce troppo bene, con particolare evidenza quando è impegnata in un salto o, peggio ancora, nel combattimento corpo a corpo: i calci volanti in cui la nostra eroina si esibisce saranno anche potenti, ma non si può certo dire siano sferrati con l’armonia e la rapidità che ci aspetteremmo.
A proposito di combattimenti corpo a corpo: presto vi vorrete affidare esclusivamente a questo mezzo per eliminare i nemici. Ciò accadrà vuoi perché l’utilizzo della modalità furtiva per non farsi scoprire è qualcosa di totalmente superfluo, vuoi perché nel corso dell’avventura si avrà una limitatissima disponibilità di armi da fuoco. Sono incredibilmente assenti le doppie pistole di Lara, le fidate twin pistols che ci hanno accompagnato negli anni, sostituite da revolver che necessitano di una impugnatura a due mani. Consapevole scelta tecnica? Probabilmente no, perché nell’inventario di Lara compare la possibilità di accumulare denari, che però non potremo mai spendere per potenziare in alcun modo il nostro arsenale: siamo quindi di fronte ad un pesante taglio operato su quello che sarebbe dovuto essere il gioco definitivo.
Il primo di molti tagli. Perché, se non vogliamo attribuire a questo tipo di motivi anche la scandalosamente lacunosa trama, è difficile estendere il beneficio del dubbio anche alla considerazione che, nel corso dell’avventura, entriamo in possesso di oggetti e chiavi che non ci è mai data opportunità di usare; oppure il fatto che intere aree dei livelli siano del tutto inutili al completamento degli stessi; e ancora lascia interdetti lo spaesamento che proviamo nel non capire assolutamente dove andare in alcune sezioni del gioco in cui siamo completamente abbandonati a noi stessi; e magari aggiungiamo che, ripassando una seconda volta presso un particolare luogo, assisteremo nuovamente a scene di intermezzo già viste.
Questo più che deludente gameplay si inserisce in uno schema che rinnova in parte, nelle intenzioni, la Tomb Raider Experience: il classico menage “trovare la chiave per avanzare” è sostituito da un maggiore bisogno di interattività con i personaggi non giocanti, che ci forniranno in diverse occasioni informazioni per capire come procedere nei nostri spostamenti; per quanto riguarda il sistema di controllo, questo è stato in parte modificato, inserendo ad esempio le due differenti modalità “corsa” e “passo cauto”: occorre premere un tasto per passare ogni volta dall’una all’altra, il che non è una miglioria rispetto al passato ma addirittura un cambiamento in peggio.
Anche il sistema di “power up fisici” per la protagonista lascia perplessi: saremo obbligati a compiere azioni spesso superflue, come aprire porte che danno su stanze vuote, per consentire a Lara di incrementare i suoi parametri atletici, e quindi di superare un ostacolo, come un burrone molto profondo o un meccanismo arrugginito che richiede maggiore impegno per essere forzato, in precedenza insormontabile. Novità a tratti risibile: potreste non reagire bene all’annuncio di Lara << Le mie gambe sono più forti >>; meglio poi non commentare le ridicole barrette di cioccolato che dovrebbero sostituire i kit medici.
Torna poi un elemento negativo che già aveva flagellato il bel The Last Revelation: cioè i livelli comunicanti. AoD presenta, in diverse sezioni, grandi aree da cui si può accedere a più raccolte zone attigue: ma l’assenza di solidi punti di riferimento, insieme con la scarsa idea di quello che in particolare nelle prime fasi di gioco occorre fare, ci costringerà a correre da un luogo all’altro in cerca di indizi incorrendo in numerosi e fastidiosi caricamenti.
Analizzando la generale esperienza di gioco, si può dire che c’è un positivo buon equilibrio tra momenti di riflessione ed altri più adrenalinici, come quando l’intera security del Louvre sarà sulle nostre tracce. Ma affronteremo anche i più classici enigmi, come l’immancabile porta dalle serrature multiple che troviamo nella bella “Stanza delle Stagioni”; questa però è purtroppo una delle aree dove confluiscono zone diverse atte al ritrovamento di manufatti distinti e dove quindi più sono frequenti ed abbondanti i caricamenti non richiesti.
Parliamo delle locations, da sempre elemento importantissimo in una avventura di Miss Croft: in AoD visiteremo dapprima un sobborgo francese, in cui impera la malavita collegata al misterioso omicidio di Werner Von Croy, ove visiteremo tra l’altro un bar malfamato ed una discoteca; ospiterà poi le nostre scorribande anche il Museo del Louvre coi suoi scavi archeologici sotterranei. In seguito le indagini ci porteranno a Praga, dove avremo modo di conoscere l’ambiguo Kurtis Trent nella perlustrazione di fogne e di un tetro ospedale psichiatrico in cui riecheggiano atmosfere da survival horror. Completeremo la nostra avventura in sinistri laboratori alchemici in cui avvengono i terribili esperimenti che stanno dietro al mistero dei dipinti Obscura.
Il titolo del gioco ci suggerisce l’impronta dark del tutto: nel corso dei nostri viaggi vedremo poca luce soffusa, ed incontreremo personaggi spesso dall’aspetto poco raccomandabile, come malviventi di strada, barboni, prostitute e pazzi violenti. Il tutto sarebbe potuto essere interessante, se non fosse stato mortificato da una realizzazione globale affrettata oltre che da una resa tecnica mediocre.

Dio salvi Lara Croft!

Ci sono due possibili ottiche per giudicare, in fin dei conti, questo Angel of Darkness: una consiste nel valutarlo così come esso si presenta al giocatore, senza che egli sia necessariamente a conoscenza dei precedenti della serie di Tomb Raider; l’altra invece guarda a questo gioco tenendo presenti le decine di pagine di interviste e dichiarazioni rilasciate dal team di sviluppo che ne decantavano le caratteristiche avveniristiche: il risultato è una delusione cocente da entrambi i punti di vista, e dal secondo in particolare. Core Design, casa di sviluppo che per anni si era seduta sugli allori, ha con questo pessimo risultato messo in serio pericolo la sua creazione più preziosa e redditizia, se non altro buscandosi così una sonora lezione di umiltà.
Fatto ulteriormente sconcertante, è che il primissimo video di Tomb Raider Anniversary Edition, datato fine 2006, titolo originalmente destinato alla produzione da parte di Core invece che di Crystal Dynamics, ci mostrava ancora una volta un gioco antiquato migliorato solo nella sua veste grafica: segno che la lezione nel segno di cambiamenti sostanziali di qualità non era stata assimilata dal team di sviluppo inglese. Se non fosse stato quindi per il mirato e risolutivo intervento di Eidos nell’estromettere una volta per tutte Core dal progetto Tomb Raider, il quasi totale fallimento di questo Angel of Darkness non sarebbe servito a nulla e la serie, già agonizzante, sarebbe incorsa in una fine ancora più plateale e meno dignitosa, peraltro in occasione del suo decimo compleanno. In fondo, non è andata troppo male: Dio benedica Crystal Dynamics che in seguito è riuscita a salvare Lara Croft da questo scempio.

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