Monkey Island: Special Edition Collection – Recensione Monkey Island: Special Edition Collection

Sono Guybrush Threepwood, e voglio diventare un pirata
 

Parlare di Monkey Island agli utenti con più di 30 anni sulle spalle equivale a risvegliare emozioni mai dimenticate, quando un’avventura si affrontava con un mouse in mano, una tazza di caffè per le lunghe ore notturne e la compagnia di pionieristici processori a 8-16Bit. In quel nostalgico scenario, all’inizio degli anni ’80, un certo George Lucas fondò la LucasFilm Games, costola della sua casa cinematografica LucasFilm, con l’intenzione di trasferire sui computer le gesta dei suoi vari Luke Skywalker e Indiana Jones. 

La prima avventura della LucasFilm Games fu la trasposizione videoludica del film Labirinth (prodotto dallo stesso Lucas, guarda caso) uscita su C64 e AppleII nel 1986 grazie al lavoro di David Fox. Il prodotto era ben lontano dall’eccellenza che sarebbe arrivata solo un anno più tardi, ma presentava un’interessante interfaccia, dove i verbi a disposizione dell’utente andavano abbinati a situazioni di gioco e oggetti presenti sullo schermo. Appena un anno più tardi, la casa californiana lanciò il famoso Maniac Mansion, avventura a base di situazioni demenziali ed enigmi, in cui riprese l’interfaccia di Labirinth, la migliorò e la rese molto più intuitiva, creando il famoso SCUMM story system (l’acronimo della prima parola sta per Script Creation Utilities for Maniac Mansion). Con la nuova interfaccia sarebbe bastato ora interagire, con il solo ausilio del mouse, con un limitato vocabolario di verbi (dai, esamina, parla, apri ecc) presente in basso nello schermo, cliccando in seguito su elementi o personaggi presenti nello scenario di gioco, nella parte alta dello schermo. Fu il "punta e clicca" che diede il nome all’intera categoria. Ma fu solo qualche anno più tardi che la LucasFilm Games, grazie al genio di Ron Gilbert, Tim Schafer (il papà di Brutal Legend) e Dave Grossman, autori ormai entrati a pieno diritto nella storia videoludica, creò quello che ancora oggi è considerato il miglior esponente di questa categoria.

Con Monkey Island il trio si rese responsabile di molte innovazioni del campo delle avventure grafiche e grazie alle loro intuizioni ora l’utente non rischiava più di veder morire in modo prematuro il proprio alter ego ludico o di rimanere irreparabilmente bloccato nel corso del gioco a causa di qualche sbaglio precedente, permettendo in tal modo di concentrarsi unicamente sugli enigmi e sulla trama. Ispirandosi, per loro stessa ammissione, all’attrazione "Pirati dei Caraibi" di Disneyland, Ron Gilbert e colleghi unirono in modo geniale enigmi, situazioni divertenti, battute ormai storiche, pirati, scimmie, tesori e personaggi ormai leggendari. Uscito nel 1990 sulle piattaforme allora più diffuse (Pc, Atari ST, Macintosh e Commodore Amiga), Monkey Island (titolo completo The secret of Monkey Island) ebbe un successo tale da sorprendere i suoi stessi creatori, spingendoli a far uscire, a neanche un anno di distanza, un seguito intitolato Monkey Island:LeChuck’s revenge. Nonostante il breve lasso di tempo, LeChuck’s revenge si rivelò molto più di un’operazione commerciale, rappresentando un perfetto seguito e proponendo il vero finale della storia. Grazie al successo dei due episodi, la LucasFilm Games (che proprio in concomitanza con l’uscita di LeChuck’s revenge mutò il proprio nome in LucasArts) divenne il punto di riferimento delle avventure punta e clicca, insieme alla storica rivale Sierra.

 

 

 

 

Non starai mica parlando di Big Whoop?

La trama di The secret of Monkey Island prende il via da un improbabile ma tenace personaggio che ha fatto del divenire un "temibile pirata" la ragione della sua vita. Il nostro Guybrush Threepwood (una curiosità: il nome del protagonista deriva da una combinazione della cartella, denominata "guy", in cui i creatori salvavano il programma, e il termine "brush" con cui indicavano il programma di palette grafica) inizia quindi una sorta di tirocinio piratesco su Melee island, attraversando numerose prove al fine di dimostrare a sé stesso di essere un degno terrore dei sette mari. Nel corso delle sue avventure Guybrush conoscerà personaggi splendidamente caratterizzati, alcuni dei quali ormai divenuti un’icona videoludica, affronterà enigmi dotati di una loro logica contorta, situazioni demenziali (spesso la trama ci stimola a provocare deliberatamente particolari dialoghi allo scopo di vedere le risposte che ne scaturiscono), scimmie, cacce al tesoro e duelli a insulti, arrivando a conoscere Elaine Marley, governatore delle tre isole dell’avventura e suo amore eterno, e LeChuck, terrore dei sette mari e suo nemico altrettanto eterno, che nel corso degli episodi attraverserà quasi tutte le forme necrotiche conosciute. fantasma, zombi, entità voodoo e così via. Alla notizia che il suo grande amore Elaine sta per essere costretta a sposare il temibile capo dei pirati, il nostro alter ego ludico si lancia in una corsa contro il tempo fino a impedire l’improbabile unione, giungendo a un finale che, pur gustoso e soddisfacente, non rappresenta certo la vera conclusione della storia, che giungerà solo con il seguito.

In LeChuck Revenge quindi (il cui filo conduttore è rappresentato da una grande e insospettabile passione di Ron Gilbert: il voodoo) troviamo il prode protagonista, ormai più maturo, sulle tracce del mitico tesoro di Big Whoop, l’unico in grado di garantirgli un posto nell’olimpo dei pirati leggendari. Tra prepotenti scagnozzi, enigmi, gare di sputo, pirati in pensione e signore voodoo, Guybrush avrà modo di scoprire che la sua antica nemesi è risorta dalla tomba grazie a un’inquietante energia voodoo. Il finale dell’episodio, a detta degli sviluppatori l’unica vera conclusione della storia (anche se venne frettolosamente rimaneggiata nel terzo episodio, The curse of Monkey Island, con un espediente abbastanza banale), rappresenta il colpo di genio più alto che Gilbert e colleghi potessero includere nei due episodi delle peripezie di Guybrush. Malinconico finché si vuole, ma sicuramente originale e inaspettato, il finale di LeChuck’s Revenge rimane ancor oggi tra i migliori della storia videoludica. Gilbert, Schafer e Grossman, con il contributo di Lucas stesso, hanno inoltre riempito le due avventure con numerose citazioni cinematografiche, culturali e videoludiche: uno dei personaggi si chiama Kate Capsize, citando Kate Capshaw, moglie di Spielberg, da sempre grande amico di Lucas. Il nonno di Elaine Marley (già questo è una dedica a Bob Marley, le cui opere hanno influenzato le musiche della saga) si chiama Horatio Torquemada, richiamando alla memoria un noto personaggio storico. Senza contare altri numerosi riferimenti, in cui Lucas cita sé stesso e la LucasArts, cedendo ad esempio i propri lineamenti a un personaggio secondario del primo episodio e chiamando il bar dell’isola, il primo posto che visiteremo nelle nostre peripezie, con lo stesso acronimo del sistema di gioco, SCUMM bar, senza contare altre citazioni da Star Wars e Indiana Jones, mai invasive e perfettamente inserite nel contesto del gioco.

 

 

 

 

Punta e clicca con un pad

Trasferire su un pad un sistema di controllo che per sua stessa natura è più avvezzo all’uso del mouse non è impresa facile, ma l’operazione sembra essere riuscita bene (d’altra parte a occuparsene è stata la stessa LucasArts, evitando saggiamente di cedere la gestione del suo figliol prodigo a terzi). La levetta analogica svolge bene le funzione di mouse (anche se per forza di cose non può giungere ad altrettanti livelli di velocità e controllo), e sono presenti numerose scorciatoie assegnate ai vari pulsanti del pad. L’interfaccia di gioco riprende le versioni già uscite su prodotti Apple (IPhone e IPad), con scomparsa totale del menu di azioni e oggetti nello schermo, che ora è interamente occupato dallo scenario di gioco, inventario da richiamare tramite la pressione di un tasto, e azioni ora eseguibili in base al contesto. Bisogna ammettere che il tutto risulta inizialmente scomodo per i giocatori più portati a maneggiare un mouse, ma è solo una questione di abitudine. La LucasArts ha dimostrato di saper adattare egregiamente  due sistemi di controllo per loro stessa natura difficili da conciliare. E’ presente anche un comodo sistema di consigli, attivabile in qualsiasi momento tramite la pressione del tasto quadrato, inserito dagli sviluppatori con il preciso scopo di evitare che i giocatori trascurassero la trama principale per perdersi in ricerche di soluzioni su internet.

 

Un pirata in alta risoluzione

La veste grafica dei due episodi è stata completamente ridisegnata senza risultare invasiva o fuori luogo, e il comparto tecnico, che già nella versione originale vantava un notevole virtuosismo tecnico e una scelta dei colori pressoché perfetta, è qui migliorato da un nuovo e piacevole stile artistico. Va detto che in qualsiasi momento, tramite la semplice pressione di un tasto, è possibile tornare alla modalità grafica originaria, disponibile solamente in inglese (la riedizione vanta dialoghi scritti in italiano, pur lasciandone le voci in inglese) una chicca per gli anglofoni che non vogliono perdersi giochi di parole intraducibili nella nostra lingua (l’enigma della scimmia su LeChuck’s Revenge è quasi impossibile da risolvere nella versione in lingua italiana, a causa di un mal tradotto gioco di parole). Nonostante l’azzeccato e piacevole stile grafico e la presenza di alcuni extra (le ormai immancabili gallerie artistiche e musicali), il prodotto non presenta novità rilevanti rispetto alle versioni originali, non aspettatevi quindi nuovi enigmi o situazioni.

 

 

 

 

La leggenda continua

Con i primi due episodi di Monkey Island, Gilbert, Schafer e Grossman hanno praticamente scritto la storia delle avventure punta e clicca, e raccoglierne l’eredità, senza inciampare in remake di dubbio gusto, era un’impresa possibile solamente alla stessa LucasArts. La casa californiana è riuscita nel difficile compito di rinnovare un prodotto che non risente minimamente degli anni trascorsi dalla sua prima uscita. Ancora oggi Monkey Island rappresenta un manuale di perfetto game design al quale molti, forse troppi, sviluppatori odierni dovrebbero ispirarsi. La storia è perfettamente gestita e avvincente dall’inizio alla fine, i personaggi sono caratterizzati ottimamente, gli enigmi sono stimolanti, spesso geniali, anche se per forza di cose inerenti alla filosofia demenziale che permea l’intera produzione (il duello di spade a insulti rappresenta probabilmente una delle più alte vette raggiunte da questo genere di produzione). Chi va avanti a poligoni e sparatorie farebbe meglio a cercare altrove, ma chi è alla ricerca di un pezzo di storia o, più semplicemente, di un ottimo prodotto, troverà in questa riedizione un sincero e riuscito tributo a una delle migliori saghe della storia videoludica.

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