Prey – Recensione Prey

Essere una Preda… o pregare?

Prey. Chi non conosce perfettamente l’inglese potrebbe tradurre questa parola, per assonanza, con “prega” e non, come dovrebbe, con “Preda”. In realtà tutte e due le parole potrebbero sintetizzare perfettamente quanto accade in questo titolo, creato dalla Human Head. Tommy ne avrebbe, di motivi per pregare… e ne avrebbe tanti, visto quello che dovrà affrontare durante il gioco; questo,  nonostante il suo rifiuto verso ogni forma di tradizione del suo popolo, gli indiani Cherockee. Una sera, Tommy si trova nel bar della sua donna, Jen, insieme ad Enisi, suo nonno. Questi, al contrario di lui, sono profondamente attaccati alle tradizioni, credenze e usanze Cherokee. Sembra una serata uguale a tante altre, in cui fare discorsi normali, quali andare a vivere altrove con la propria fidanzata, legata tuttavia alla propria terra, oppure ascoltare i moniti del nonno su quanto possa essere sbagliato perdere affezione vero le proprie tradizioni. La routine quotidiana, tuttavia, viene bruscamente interrotta dall’orrore: annunciata solamente da voci confuse alla radio e dalle luci esterne, ecco arrivare la classica invasione aliena, che non fa sconti a nessuno dei presenti: vengono tutti prelevati con un raggio traente e portati a bordo di un’enorme nave spaziale: gli umani, appunto, sono diventati delle prede di questa specie aliena (e pregare non servirebbe a nulla, adesso). Questo è l’incipit della vicenda, raccontata tramite il motore grafico del gioco. In effetti, l’introduzione dura ancora: Tommy, una volta sulla nave, viene trasportato, attraverso un sistema automatico, verso una destinazione a lui  ignota. Ci metterà poco a capire, come era facile aspettarsi, che le intenzioni degli alieni non sono delle migliori: gli esseri umani vengono usati come vera e propria carne da macello. Eppure in quell’orrore, tra urla e cadaveri sparsi ovunque, giunge un misterioso aiuto: qualcuno, all’interno della nave, pare essere dalla sua parte. Inizia  così l’avventura di Tommy, strutturata come un classico FPS (Sparatutto in Prima Persona) ma che vuole, se non rivoluzionare, quantomeno portare una ventata d’aria fresca nel genere. Non crediamo di rovinarvi nulla, anticipandovi che lo fa davvero bene.

               Ecco un esempio degli orrori che dovrete affrontare nel corso dell’avventura

 

Newton la sapeva lunga…

Come appena detto, il titolo si presenta come un normalissimo FPS, forse un po’ troppo normale: la trama, benchè non proprio ridotta all’osso, non presenta particolarità di sorta, mentre il gioco è strutturato interamente all’interno della nave aliena. Ci ritroveremo quindi ad attraversare quei corridoi metallici che spesso, durante la nostra “carriera” videoludica, abbiamo percorso. La novità sta nell’introduzione della gravità: in molte zone dell’astronave, infatti, questa viene simulata attraverso delle piastre: camminandoci sopra possiamo percorrerle interamente, scalando pareti e arrivando sul soffitto. C’è di più: è possibile agire su degli interruttori che modificheranno il polo di gravità nella stanza in cui ci troviamo. Interagendo con questo, ad esempio, la gravità potrebbe venire invertita catapultandoci su quello che, pochi secondi prima, era un soffitto o una parete. L’uso di tali espedienti condiziona tanto il design, poiché ogni cosa può ritrovarsi a passare da contorno scenico ad elemento in primo piano, quanto l’ambientazione. Questa, che poteva sembrare inizialmente un “more of the same”, ricalcando scenari triti e ritriti (pensiamo a doom 3, ad esempio), risulta in questo modo sempre varia, affascinante e sufficientemente complessa da non far cadere mai il gioco nella trappola della ripetitività, di cui a volte gli fps soffrono. A migliorare ulteriormente la parte “giocata” è la presenza, soprattutto nelle fasi avanzate del titolo, di sequenze spettacolari e con un design di ottima fattura: non voglio anticiparvi nulla per non rovinare la sorpresa; dirò solo che possono ricordare sequenze a bordo di mezzi viste in altri giochi anche se, più che ai vari Halo, penserei al vecchio Descent. La scelta di introdurle non da subito è dovuta, probabilmente, al tentativo di spezzare la routine di gioco; cosa che, tuttavia, non sembrava esser necessaria.

  Una vista del mondo degli spiriti

 

Frecce al nostro arco

In realtà c’è un’altra particolarità nel gameplay: subitodopo aver mosso i primi passi nel gioco, avremo modo di visitare un luogo spirituale, legato alle tradizioni del nostro popolo (per motivi che non vi svelerò, in quanto questo aspetto è profondamente legato alla trama del gioco), dove acquisteremo alcuni poteri. Questo ci porta al fatto che non potremo “morire”: quando la nostra energia arriverà a 0, verremo infatti trasportati in questo mondo, dove dovremo abbattere degli spiriti col nostro arco spirituale. Più ne abbatteremo, nel breve lasso di tempo a disposizione, più energia avremo ritornando in vita. C’è da dire che la sequenza è davvero breve e quindi, anche morendo spesso (il gioco comunque non è difficile), la stessa difficilmente diverrà noiosa. A parte questo, avremo la possibilità di usare, durante il gioco, la vista spirituale. Questa ci permetterà di uscire da situazioni altrimenti impossibili da superare: il personaggio andrà in trance e la sua anima, controllata da noi, potrà vagare liberamente lontano dal corpo, potendo accedere ad aree  normalmente inaccessibili. A differenza della gravità, però, questa caratteristica è stata sfruttata in maniera meno efficace, visto che la struttura FPS del titolo non viene di certo alterata dai puzzle basati sulla vista spirituale. Per quanto riguarda l’arsenale, questo non è amplissimo: appena 6 armi, tutte comunque ben caratterizzate; in più è da segnalare l’arco spirituale, con cui potremo trafiggere i nemici in modalità spirituale, consumando però un tot di energia mistica (che funziona come il mana dei giochi di ruolo). La longevità, purtroppo, non è altissima: complice la bassa difficoltà (anche giocando a difficile) l’avventura ha una durata di circa 10 ore. Niente di nuovo sotto il sole per quanto riguarda il multiplayer: modalità classiche e poco impatto dell’elemento gravità sul gameplay, che non si distacca dai canoni del genere.

             Ecco come si presentano i camminamenti gravitazionali

Aspetti Tecnici

Il motore grafico si basa su quello di Doom 3; la varietà grafica è sufficiente a non venire mai a noia, mentre il gioco risulta decisamente più acceso, nei colori,  rispetto al titolo della Id e, nel complesso, molto bello da vedere. Si passa da ambienti scuri ad ambienti con predominanza di rosso e blu, con delle brevi parentesi di paesaggi naturali, durante le visite di Tommy al mondo degli spiriti. I modelli dei nemici non sono stupendi, soprattutto per quanto riguarda le animazioni. Spettacolari invece certe sequenze di gioco dove, complice un uso sapientissimo degli effetti e dei colori, il motore grafico da il meglio di sè, regalando un aspetto visivo di primissimo piano. Buoni gli effetti sonori mentre la musica, comunque mai noiosa, non brilla per spettacolarità. Sono presenti anche alcune canzoni, udibili nel primo livello dal juke box del bar (e, durante il gioco, nei rari juke box trasportati sulla nave dal raggio traente).

Conclusione

Prey, probabilmente, non vuole rivoluzionare il genere degli fps (e di certo non lo fa), ma porta comunque in esso una ventata di freschezza, grazie all’espediente della possibilità di manovrare la gravità. Decisamente bello da vedere, regala un’esperienza che qualsiasi amante del genere dovrebbe provare. Peccato per la bassa difficoltà, uno dei pochi veri difetti del titolo, che porta anche ad una scarsa longevità. In ogni caso è un gran bel giocare, in preparazione all’uscita del seguito, da poco annunciato.

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