Shadow Hearts – Recensione Shadow Hearts

Fra mistificazione storica e corredo socio-culturale

Era il 1999, quando l’elegante e misteriosa Koudelka Lasant faceva la sua apparizione sulla console grigiastra del momento; per chi non sapesse a cosa ci stiamo riferendo, “Koudelka”, storico flop di casa SNK e del team di sviluppo Sacnoth, fu solo il principio di una serie destinata a raggiungere la ribalta solo 5 anni più tardi, sotto la bandiera Aruze e lo sviluppo dei neonati Nautilus (oggi, feelplus, sviluppatori di Lost Odissey).
La storia di “Uru”, d’altronde, meritava di essere raccontata.

Il diavolo e l’acqua santa

Manciuria, 1913, la figlia di un noto esponente del clero è sotto scorta, affidata alle autorità giapponesi. Trattasi di Alice Elliot, nota ragazza prodigio figlia dell’altrettanto famoso e devoto Morris Elliot, esorcista inglese di fama internazionale. Qualche mese prima i due si recarono a Rouen per incontrarsi con padre James O’Flaherty per discutere della misteriosa scomparsa di alcuni testi arcani dagli archivi del Vaticano ma, sfortunatamente, vennero attaccati da un singolare individuo: un gentiluomo con tanto di tuba e frac che, con il solo movimento delle mani, fece a pezzi padre Morris, risparmiando solo la figlia. Nonostante la giovane età, infatti, Alice ha sviluppato un potere esorcizzante senza pari nell’Europa del primo ‘900 e, con il benestare del Vaticano, esercitava la sua funzione di intercessore in nome di Dio.
Manciuria, 1913, Yuri Volte Hyuga, un giovane ragazzo per metà russo e per metà giapponese, sale su un treno spinto da una misteriosa voce che da qualche tempo sembra guidarlo insistentemente, trascinandolo nei guai. D’altronde Yuri non è un ragazzo qualunque: trattasi di un Harmonixer, un umano in grado di fondere la propria essenza terrena a quella di demoni elementali. Il giovane è rimasto orfano a soli 10 anni e da allora vaga in oriente, sulla scia dei territori visitati in passato dal padre, un soldato appartenente all’esercito nipponico, in cerca di vendetta: Yuei reputa infatti il genitore responsabile della morte prematura della madre.
Cosa potrebbe accomunare una sacerdotessa votata alla causa di Dio e un ragazzo demone afflitto dalla maledizione impostagli dalla sua stessa linea di sangue?

Questo è l’incipit di Shadow Hearts, seguito spirituale dello sfortunato Koudelka, ambientato 15 anni dopo gli eventi narrati nel predecessore, che offre al giocatore un roster di personaggi funzionale e discretamente caratterizzato.
Ed esattamente come Koudelka, il titolo Sacnoth fa delle atmosfere lugubri e dell’umorismo nero il suo fiore all’occhiello, con un retrogusto narrativo tipicamente Lovecraftiano, senza però dimenticare l’aspetto storico-mistificante tipico della serie: ambientato poco prima del primo conflitto mondiale, fra Oriente ed Occidente, il gioco sfrutta alcuni episodi, location e personaggi storici per introdurci alle vicende dei protagonisti e sviluppare la narrazione all’interno di un contesto storico e geografico credibile e coerente.
Gli eventi che potremo vivere con la sgangherata compagnia dell’Harmonixer possiedono sempre una connotazione squisitamente grottesca e lugubre; niente a che vedere con le più comuni produzioni nipponiche votate al fantasy e al fattore “kawaii” (qualcuno ha detto “Tales of”?).

Fortunatamente il gioco non risulta mai noioso o spossante nonostante le tematiche trattate, grazie ad una sceneggiatura – e in particolare ad uno script – caratterizzato da un umorismo nero e da un’ironia esilarante: saranno proprio questi sketches, scambi di battute fra protagonisti, a tratteggiare nei più dei casi la loro personalità e le loro caratteristiche peculiari, rendendovi partecipe di un gruppo affiatato e ben assortito. Escludendo, infatti, due dei sei protagonisti, i personaggi sono tutti credibilissimi, nelle loro incertezze, nei loro limiti, nei loro sogni, tanto da riuscire ad intenerire e far affezionare anche il giocatore più smaliziato, specie nelle battute finali.
Certo, nel mondo di Shadow Hearts, mostri e demoni sono l’ordine del giorno, il folklore e le credenze hanno preso il sopravvento sulla logica: epoca figlia di un ottundimento della ragione da parte della tradizione popolare e della chiesa stessa.
L’avventura di Yuri e compagni percorre un tragitto di sole 20-30 ore, una durata francamente risibile per un gioco di ruolo di stampo giapponese, e soffre di alcune problematiche legate all’accesso delle – poche – subquest: il gioco, infatti, è suddiviso in due momenti storici e geografici: inizialmente ci ritroveremo a viaggiare in Asia per poi finire in Europa; questa distinzione, se non si soddisfano certe condizioni non palesate dal gioco stesso, precludono al giocatore la possibilità di completare il gioco al 100%.

Judgment Ring

Se per Koudelka Sacnoth adottò un sistema di battaglia che strizzava l’occhio ai tattici dell’epoca (o al suo gemellino – almeno negli intenti – Parasite Eve), per Shadow Hearts gli sviluppatori hanno deciso di introdurre una sequela di varianti al classico gameplay da JRPG decisamente sfiziose, in grado di far distinguere il titolo dai tanti ruolistici massificati. Il sistema di battaglia, ad esempio, pur essendo strutturato in turni, possiede una peculiarità da non sottovalutare: il Judgement Ring.
Detto anche “Il colpo di genio Sacnoth”, è un disco che compare nella porzione alta a destra dello schermo una volta assegnata un’azione al personaggio di turno, come un attacco fisico, un magia offensiva, o il semplice utilizzo di un oggetto lenitivo.
All’interno di questo disco sono contenuti svariati coni colorati tanti quanto il gioco vuole ostacolare la buona riuscita dell’azione e, a seconda del tempismo del giocatore che dovrà fermare una lancetta che gira in senso orario esattamente all’interno di questi, il comando avrà luogo (con bonus, nel caso di zone “calde” – indicate col colore rosso- ovviamente più difficili da colpire) o meno. Grazie a questa piccola aggiunta, il buon esito degli incontri non è solo basato sul livello delle statistiche dei componenti del party, ma anche sull’effettiva abilità del giocatore che, con precisione svizzera e mettendo alla prova i propri riflessi, sarà chiamato in prima persona a partecipare agli scontri con le tante creature Lovecraftiane che gli si pareranno contro. Un’altra interessante feature del sistema di gioco è da ricercarsi nell’affiancamento ai canonici HP ed MP una nuova barra d’energia numerica: SP, Sanity Point. Ogni azione compiuta al cospetto di creature demoniache , infatti, costerà un po’ di sanità mentale ai personaggi impegnati nello scontro, provati dallo stress psicologico di dover affrontare creature sovrumane e situazioni al limite dell’irreale. Ovviamente la quantità di resistenza psicologica varia da personaggio a personaggio: Yuri, ad esempio, abituato com’è all’avere a che fare con demoni di ogni sorta, è praticamente immune all’azzeramento di questa statistica, mentre la dolce Alice è uno dei personaggi meno abituati ad affrontare situazioni simili. All’azzerarsi di questa barra d’energia il giocatore perderà il controllo del personaggio interessato dall’handicap, che perderà la testa eseguendo comandi completamente casuali su un qualsiasi bersaglio su schermo, amico o nemico che sia. Ovviamente la situazione può essere ripristinata grazie ad oggetti lenitivi in grado di calmare i protagonisti. Un’altra caratteristica del tutto originale risiede nel metodo di reclutamento delle varie incarnazioni elementali di Yuri: per poter aumentare il livello dei vari stati demoniaci del protagonista, infatti, si è chiamati a collezionare “malice”, energia maligna liberata dai cadaveri dei nemici, tanta quanta ne è necessaria per entrare nel “Graveyard”, un vero e proprio cimitero fisico all’interno dell’animo di Yuri, tramite il menù. Qui l’Harmonixer accetterà con il proseguo della storia la sua realtà, affrontando, scontro dopo scontro, la propria natura e prendendo confidenza con la sua abilità demoniache. Ma il malice non influenza solo positivamente il nostro caro protagonista: per la prima parte del gioco, infatti, la quantità di Malice accumulata dal giovane russo dovrà essere “scaricata” affrontando un nemico nel “Graveyard”, pena il dover affrontare un nemico imbattibile negli scontri casuali su mappa d’esplorazione. Tutto questo, ovviamente, è integrato nella narrazione, ed è molto positivo notare quanto il gioco si pieghi a motivi dettati dalla sceneggiatura piuttosto che il contrario: una politica che al giorno d’oggi, nel campo dei JRPG, non sembra essere considerata dai più.
La difficoltà e la curva di apprendimento del titolo sono ben equilibrate, non vi è alcun innalzamento della difficoltà – già di per sé medio-bassa – immotivato da segnalare.

 


Cuori di tenebra

Tecnicamente Shadow Hearts non sembra nemmeno anelare a competere su un hardware performante come il monolito nero Sony. Le motivazioni sono da ricercarsi nella storia del progetto stesso, destinato inizialmente su Psone e prontamente spostato su PS2 quando lo sviluppo era ormai ultimato. Il gioco presente tutte le caratteristiche dei JRPG da console 32bit: telecamera fissa, sfondi pre-renderizzati, modelli poligonali discretamente caratterizzati e un appena sufficiente numero di effetti speciali nelle scene di combattimento che, seppur questo non risollevi di molto la sorte dell’aspetto tecnico del gioco, permette di sfoggiare una buona quantità di animazioni dedicate ai singoli personaggi. Questa povertà poligonale, paradossalmente, gioca a favore della risoluzione e della pulizia grafica del titolo.
I modelli poligonali dei protagonisti sono abbozzati, ma fortunatamente le cut scenes non li riprendono quasi mai da vicino, essendo la maggior parte della narrazione scandita da dialoghi in classici box affiancati da un artwork del personaggio parlante. Pollice alto, invece, per i brevi e sporadici FMVs che riprendono le parti più importanti della storia, seppur il doppiaggio anglosassone di questi non risulti minimamente soddisfacente.
Uno dei lati migliori di Shadow Hearts è sicuramente la soundtrack, bella, d’atmosfera, dark, quanto di più unico la serie possa vantare. Yasunori Mitsuda (Chrono Cross, Xenogears, Soma Bringer, World Destruction) e Yoshitaka Hirota sono riusciti a ricreare nelle loro composizioni il mondo stesso di Shadow Hearts, pulsante e sanguinolento nella sua natura lugubre ed agghiacciante, spaziando dal genere industrial a ritmi techno/elettronici. Certo, non mancano pezzi toccanti e melodici, come l’ending del gioco stesso, “Shadow Hearts”, o quello che diverrà il tema di tutta la serie a partire proprio da questo episodio: "Icaro"

E da qui, la serie

Shadow Hearts non è un must, tanto meno un classico del genere, un titolo che consiglieremmo ad un neofita del parco ruolistico nipponico, e non è neppure uno di quei giochi che faremmo provare ad una persona che vuole conoscere le potenzialità della PS2; tuttavia è un piccolo diamante grezzo, svalutato e dimenticato da molti. Eppure, dalle semplici basi di questo titolo, qualche anno più tardi, torneremo a parlare di Yuri e della sua storia in "Shadow Hearts 2: Covenant", dove la serie raggiungerà il suo apice qualitativo.

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