Donkey Kong Country – Donkey Kong Country

 

Lo scimmione nintendo

Nel 1994 la Nintendo era all’apice della gloria, la sua piattaforma 16-bit SuperNes aveva già ospitato alcuni tra i migliori prodotti videoludici dell’epoca, tra episodi di Castlevania, conversioni arcade al limite della perfezione, e i mastodontici gdr della Squaresoft (allora conosciuta così, dal momento che non si era ancora unita alla Enix). All’orizzonte si vedeva già l’avvento delle successive macchine a 32-bit, le ormai storiche Sega Saturn e PS1, e la Nintendo, dal canto suo, stava lavorando a una nuova piattaforma a 64-bit che ancora stentava a uscire sul mercato. Inizialmente conosciuta come Project Reality, poi divenuta il controverso e potente Nintendo64, la piattaforma ludica si era già fatta conoscere in quello stesso anno nell’ambito arcade (nelle sale giochi, per intendersi) grazie a Killer Instinct, mastodontico picchiaduro il cui comparto tecnico segnò un salto in avanti allora impensabile, tale da rendere necessaria la presenza di un vero e proprio hard disk all’interno del cabinato, in grado di aiutare il processore a gestire la mole di dati. Responsabile di tanta bellezza tecnica (e di giocabilità) fu la Rare, software house a quel tempo ancora poco conosciuta, ma che a partire da quell’anno avrebbe legato il suo nome alle piattaforme Nintendo grazie a capolavori come Goldeneye, Perfect Dark, il già citato Killer Instinct, e un certo scimmione Nintendo. Per alleggerire in qualche modo i continui ritardi dell’uscita sul mercato della sua nuova piattaforma a 64-bit, la Nintendo decise di rispolverare un suo personaggio storico dopo più di dieci anni di inattività: Donkey Kong. Forte del sicuro richiamo del nome del prode gorilla, di un’ormai consolidata fama di ottima produttrice di titoli videoludici, e di una piattaforma a 16-bit che ancora aveva assi nella manica, la casa giapponese affidò lo sviluppo del suo nuovo titolo alla stessa Rare, che sviluppò quello che ancora oggi viene considerato uno dei migliori titoli per SuperNes e uno dei platform più riusciti di sempre: Donkey Kong country. Per ben comprendere quanto il titolo si sarebbe poi rivelato tecnicamente superiore a qualsiasi altro prodotto videoludico contemporaneo, basti ricordare che durante un’anteprima stampa, in cui vennero mostrate le prime demo del titolo, la Rare riuscì inizialmente a farlo passare per un titolo per Project Reality, e solo poco dopo avrebbe rivelato a uno stupefatto pubblico che tutto quel concentrato di tecnologia era stato programmato interamente su una cartuccia a 32mega (una bella quantità di memoria, per quell’epoca) per il veterano SuperNes. 

 

 

Avventure e banane

La trama di Donkey Kong, lo diciamo subito, è poco più di uno sfondo per le nostre avventure. In questo genere di titolo di solito il pretesto iniziale viene dal rapimento della pulzella di turno, d’altra parte Mario non sarebbe mai partito se non gli avessero rapito Peach, e il prode Link starebbe ancora dormendo nel suo letto nell’incipit di A Link to the past, se non avesse sentito il richiamo di una rapita e spaventata principessa Zelda. Nel nostro caso si inizia con il furto di una grossa quantità di banane, e dal momento che per un gorilla non esiste offesa più grave, il nostro rozzo Donkey Kong, affiancato dal suo amico, la bertuccia Diddy (oltre che da altri personaggi secondari che metteranno a disposizione alcune risorse) decide di risolvere la faccenda con scimmiesca diplomazia. La nostra coraggiosa e antropomorfa coppia, quindi, attraverserà un centinaio di livelli (tra quelli base e i numerosi passaggi segreti) ottimamente realizzati tra giungle, montagne innevate, fondali marini, fabbriche molto steampunk e miniere, fino alla resa dei conti con King K. Rool, coccodrillo umanoide (cosa se ne farà poi un coccodrillo di tutte quelle banane?) che grazie a questo titolo entrerà nella galleria dei più famosi boss Nintendo, insieme a Bowser, storica nemesi di Mario.

 

 

Salti tra le palme

Con l’uscita di Donkey Kong country la Nintendo mantenne viva anche la sua fama di azienda in grado di produrre titoli non solo tecnicamente validi, ma anche estremamente giocabili e divertenti. Le nostre avventure nel Regno di Kong (come veniva chiamato sulla confezione originale del prodotto) vengono affidate a pochi ma utilissimi comandi, il minimo necessario per saltare, per rotolare (che permette anche di dare più slancio al salto), di afferrare e lanciare alcuni elementi dello scenario, e di passare il controllo a Donkey o Diddy. Ci si rende presto conto che quest’ultima possibilità rappresenta ben più di un semplice espediente grafico. Controllare alternativamente il massiccio, ma lento e pesante, Donkey e il leggero, veloce ma debole Diddy permette un approccio tattico necessario per poter proseguire nelle numerose situazioni proposte dal titolo: qui non si tratta semplicemente di andare avanti saltando sulle teste dei nemici. Altro fattore importante è la saggia gestione di alcuni gregari (delfini, rinoceronti, rane) spesso necessari per raggiungere aree segrete. Il sistema di controllo era allora affidato al pad del SuperNes, probabilmente uno dei migliori mai concepiti in ambito videoludico, in un’epoca in cui non erano né analogici, né wireless, né con vibrazione incorporata. L’alta giocabilità del titolo viene garantita anche da una risposta ai comandi al limite della perfezione, da un level-design che conferma l’estrema cura che l’accoppiata Rare-Nintendo ha sempre usato per i suoi prodotti. Avventurarsi per i numerosi livelli di Donkey Kong è un’esperienza ancora oggi gratificante, divertente al limite della dipendenza (la classica sindrome di “ancora una partita, poi smetto”), la rigiocabilità è garantita dai numerosi passaggi segreti e bonus, con una grande varietà di situazioni tra salti, nuotate nei fondali del mare, corse su carrelli di miniera e scivolate nei ghiacci, anche se talvolta soffre di una certa linearità, mancando parte di quella sensazione esplorativa tipica di altri prodotti del genere. Inizialmente il titolo potrebbe sembrare troppo prodigo di vite extra, incrementabili raccogliendo banane e lettere in giro per i livelli, ma avanzando nella nostra avventura ci troveremo in molte situazioni impegnative, anche se mai frustranti. Nonostante un sistema di salvataggio alla fine di ogni livello, Donkey Kong rimane figlio di una scuola di pensiero hard core che, specialmente nelle fasi più avanzate, non perdona il minimo sbaglio.  

 

 

La potenza dei 16-bit

Il lato tecnico di Donkey Kong country, senza nulla togliere all’eccellente giocabilità e longevità, è senza dubbio quello che ha contribuito in misura maggiore alla fama del titolo. La Rare utilizzò la stessa tecnica del già citato arcade Killer Instinct (del quale, per la cronaca, realizzò anche un’ottima conversione per il 16-bit Nintendo) grazie a una piattaforma di sviluppo chiamata Silicon Graphics. Tale prodigio di tecnica permetteva di acquisire fotogrammi da figure pre-renderizzate e animate digitalmente, in modo da avere personaggi con un livello di dettaglio e fluidità impensabile per l’epoca. Mostrando che il processore interno del SuperNes, il Ricoh5A22, era ancora ben lontano dall’aver mostrato i suoi limiti, la Rare spinse le capacità tecniche della piattaforma 16-bit a livelli altissimi. I fondali spesso animati, i personaggi, le animazioni, gli effetti particellari delle tempeste di neve, gli effetti di luce nei livelli sotterranei, e numerosi altri tocchi di classe rendono il titolo tecnicamente ottimo ancora oggi, figuriamoci l’effetto che ebbero nel 1994. Tanta maestria grafica venne estesa anche a un’ottima progettazione dei livelli stessi, mostrando un level-design che ancora oggi avrebbe molto da insegnare a titoli ben più pompati tecnicamente, ma privi di senso artistico. Nonostante la pesantezza del motore grafico e la bellezza estetica permessa dal Silicon Graphics, la Rare riuscì anche a realizzare un eccellente comparto sonoro. Chi si aspettava le semplici e orecchiabili musichette tipiche dei platform sarebbe rimasto piacevolmente smentito. Donkey Kong country incorpora una colonna sonora di una qualità artistica e tecnica impensabile su una piattaforma a 16-bit, nonostante questa avesse già ospitato le eccellenti composizioni di Nobuo Uematsu per la saga di Final Fantasy e le epiche musiche della saga di Castlevania. La maestria dei compositori, David Wise, Robin Beanland ed Eveline F. Novakovic, permise la realizzazione di musiche perfettamente adatte al design e all’ambientazione di ogni singolo livello, effetti di eco nei sotterranei, suoni e versi perfettamente ricreati e integrati nella struttura del titolo. Il comparto sonoro del titolo è ancora oggi, a ragione, considerato uno dei migliori mai realizzati in ambito videoludico.

 

 

Il vero re della giungla

Donkey Kong country è uno di quei rari titoli, al pari di capolavori della vecchia scuola come Sonic, The secret of monkey island e altri, in grado di attraversare la storia videoludica senza invecchiare minimamente. Affrontare le peripezie dei due scimmiosi eroi, disponibili anche su Virtual console e di recente impreziosite dagli eccellenti remake per Wii e 3DS, è un’esperienza ancora oggi gradevole e divertente. Un titolo platform dalle meccaniche scorrevoli e giocabili, in grado di sfidare anche il più navigato hard core gamer. Rimane un titolo poco consigliabile a chi non ha la costanza e la pazienza di dedicarsi a un platform che richiede riflessi e allenamento. Persino il comparto tecnico sembra avere risentito poco dei quasi venti anni passati dalla sua uscita, e costituisce un’ulteriore prova di quanto una sincera dedizione a un progetto e la passione per il proprio lavoro possano portare a sviluppare titoli ancora eccellenti a distanza di molti anni. 

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