Genji: Days of the Blade – Recensione Genji: Days of the Blade

La Sony invecchia?

La Sony torna col suo Genji dopo il primo capitolo su PS2, sbarcando in contemporanea con l’uscita della PS3 sul mercato, cercando il boom di mercato per il suo nuovo capitolo. Qualunque siano state le prospettive della Sony e della Game Republic, non ci sono minimamente riusciti: Genji è un capitolo mediocre, privo di qualità di spicco e non riesce a lasciar il segno nel mercato videoludico, tantomeno a spiccare nel mercato, per ora ristretto, della PS3.

Genkuro Yoshitsune detto Genji

L’inizio permette alle nostre menti di tornare quasi ad un trailer di film tipicamente orientali col protagonista, in questo caso Genkuro Yoshitsune detto Genji, che viene presentato nel consueto agitarsi di katane (nello specifico spade gemelle), salti da autentico guerriero e quel tanto di magico che non guasta mai.
Poi è la volta della co-protagonista, l’affascinante Lady Shizuka, velocissima con la sua lama rotante con tanto di catena, e anch’essa più propensa a saltare sui tetti che a camminare con i piedi saldi in terra come una comune mortale; seguono poi gli altri eroi, come Musashibou Benkei, il possente monaco guerriero, fidato compagno di Yoshitsune, e Buson, il Dio inviato nel mondo degli umani per fermare i malvagi Heishi, che ha assunto le sembianze di Kagekiyo, il nemico morto di Yoshitsune nel primo capitolo: non c’è che lo spazio di una "comparsata" e tutto segue un preciso copione, leggermente previsto. Si approda così finalmente al titolo, alla scelta della lingua, un multilingua ben fornito privo però di doppiaggio in italiano, e a quella dei personaggi. Si presenta così Genji: Days of the Blade, il secondo episodio in videogame dedicato ad uno dei più grandi eroi militari e migliori comandanti samurai della storia del Giappone: Genkuro Yoshitsune (1159-1189), detto Genji. Ennesima creazione di Yoshiki Okamoto, già padre in Capcom di successi come “Resident Evil” e “Devil May Cry”, e poi fondatore di Games Republic.
Il contesto storico è quello autenticamente vissuto da un eroe leggendario, preso e ripreso varie volte nell’ambito delle rappresentazioni cinematografiche e teatrali dell’oriente, a partire dalla grande battaglia navale di Dannoura del 1185, raffigurata tradizionalmente nell’artigianato giapponese con l’immagine delle anime dei samurai periti in battaglia che trasmigrano nei granchi dell’isola.

Troppo meccanico e legnoso

Nonostante la presenza di tutti i personaggi sopra elencati faccia pensare a situazioni farcite di combattimenti tattici ed enigmi ambientali di varia natura, in realtà questo aspetto si rivela uno dei meno curati dell’intero gameplay a causa dei controlli imprecisi e legnosi e delle meccaniche di gioco poco curate: le azioni, persino quelle più semplici, richiedono il perfetto posizionamento rispetto all’oggetto con il quale interagire rendendo l’azione di gioco estremamente lenta e frammentaria; difetto aggravato da una regia virtuale che tende ad inquadrature sfalsate incapaci di far comprendere la propria posizione rispetto a nemici e oggetti. Un’avventura mediocre tutto sommato, che presenta gravi danni anche a livello della IA, tramite la quale sono mossi degli avversari privi di intelligenza e incapaci di creare una strategia tale da mettervi in difficoltà. Ancora più incredibilmente falsati sono i momenti nei quali ci troveremo dinanzi ad enigmi dalla facilità estrema, nei quali il più difficile sarà capire qual’è la porta chiusa e come aprirla, naturalmente basterà una chiave.
Almeno ci sarà una novità, questa riguarda i personaggi giocabili, che non sono più due, come nel primo capitolo, ma ben quattro: oltre a Genkuro Yoshitsune, possiamo scegliere Musashibou Benkei, il possente monaco guerriero, che utilizza la sua mazza come il martello di Thor, la bella Lady Shizuka, una delle sacerdotesse del clan, preposta a proteggere l’Amahagane, e Buson-Kagekiyo, che combatte rotando la sua lunga spada e sferrando colpi micidiali negli scontri corpo a corpo. Differenze non solo teoriche ed estetiche: ogni personaggio più esibirsi in centinaia di combinazioni e risultati ignoti persino a chi ha sviluppato il gioco, quindi almeno nella possibilità di combo c’è una ampia gamma.
Le animazioni risultano spettacolari e convincenti, grazie al contributo di Mitsuhiko Seike, il miglior spadaccino del Giappone, che ha prestato il proprio corpo per rendere Ganji ancora più vero.

PS3 poco sfruttata

Per quanto riguarda l’aspetto grafico il colpo d’occhio offerto inizialmente dal gioco è semplicemente superbo, peccato solo che passato lo stupore iniziale, ad un’analisi più dettagliata, il lavoro svolto da Game Republic si presti a diverse critiche: stupiscono in positivo le ambientazioni capaci di offrire alcuni scorci estremamente suggestivi, nei quali è facile trovare diversi elementi animati e ricreati utilizzando costruzioni poligonali davvero notevoli. Queste location si alternano, però, con un grave difetto, ovvero paesaggi estremamente vuoti nei quali spiccano per contrasto i pochi oggetti con i quali interagire donando un aspetto davvero cupo al tutto.
Discorso analogo per le animazioni dei personaggi: ottime quelle dei protagonisti, meno curate quelle dei nemici spesso manchevoli di fluidità e, come detto pocanzi, privi di IA. Così anche per le texture utilizzate che ricoprono i vari elementi del gioco, capaci di rivelarsi estremamente dettagliate per Yoshitsune e compagni ma decisamente sbiadite e grezze per i loro avversari; il tutto è mosso da un motore grafico dal framerate costante e privo di qualsivoglia incertezza.

Conclusione

Genji: Days of the Blade è un titolo. L’ultimo lavoro dei Game Republic ha di next gen, solo una parte del comparto tecnico, possibile da notare solo nei momenti in CG; il resto è un riciclo di meccaniche e situazioni di gioco già proposte in altre produzioni simili. I controlli che mancano di organizzazione seria, il pessimo sistema d’inquadrature, la monotonia di fondo, sono tutte caratteristiche che fanno aggravare una situazione già di per se abbastanza drammatica. In definitiva un titolo che non riesce a raggiungere la sufficienza, lasciando inesplorato tutto il potenziale di cui dispone.

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