“No Other Choice” – Recensione

Park Chan-Wook torna con una commedia caustica che stempera il suo cinema della crudeltà con l'umorismo nero.

Editoria & Trasparenza

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No Other Choice - Non c'è altra scelta Recensione

Park Chan-wook ha spesso flirtato con la commedia. Certo, nessuno dei suoi film può ascriversi pienamente ad essa, ma spunti umoristici sono ravvisabili fin da Joint Security Area. Con No Other Choice il regista coreano ha deciso di abbracciare in toto il genere, pur iniettandolo di massicce dosi di violenza ancor più caricaturale del solito.

Se in Old Boy il protagonista si strafogava di polpi vivi fin quasi a strozzarsi pur di assaporare la tanto agognata libertà, qui Man Su (Lee Byung Hun) si infradicia con l’acqua di un vaso da fiori che è in procinto di scagliare in testa a un rivale di lavoro. Esorcizzare la violenza evidenziandone i risvolti più ridicoli è una pratica ricorsiva in questo film – 139 minuti di piani omicidiari che prendono le pieghe più disparate – e chi ha amato la trilogia della vendetta potrebbe storcere il naso di fronte a un Park Chan-wook apparentemente ammansito.

In realtà No Other Choice – Non c’è altra scelta riflette semmai una raggiunta maturità autoriale (quella registica c’è da sempre), che sublima l’indignazione dei film della giovinezza in un più apparecchiato sbeffeggio dei pilastri valoriali della società dei consumi: la cultura della performance lavorativa, l’equivalenza ricchezza-merito, la competizione alienante ed esasperata che trasforma i rapporti umani da collaborativi a competitivi.

Tagli di personale

Man Su ha dedicato la sua vita alla carta. È caporeparto nelle rotative di una delle principali industrie cartaie del paese, stimato dai colleghi e realizzato a livello materiale. Vive in una grande casa indipendente con giardino, ha una bella moglie, due figli e due cani che considera parimenti membri della famiglia. Poi l’azienda viene comprata da una compagnia americana che licenzia una quota del personale, lui compreso. Crollano le certezze e comincia una forsennata ricerca di impiego, tra pratiche umilianti e competizione spietata. In procinto di perdere soldi e status, Man Su decide di crearsi da sé l’opportunità che gli serve: eliminando fisicamente la concorrenza.

Il terrore della povertà che attanaglia il protagonista non passa solo dalla perdita economica, ma da quella di status sociale: non potersi più considerare al pari di chi mantiene i suoi ruoli manageriali. Non contare più come prima agli occhi di moglie e figli. Non sapersi più definire in modo univoco, dopo essersi fatto definire dal proprio lavoro per decenni. Da qui il desiderio, irrefrenabile e incontrollabile, di riconquistare ciò che si è perso, con ogni mezzo. La società è un campo di battaglia, non certo una squadra con cui si condivide l’obiettivo finale.

No Other Choice - concorrenti scomodi
Man Su studia la concorrenza

Se è quasi spontaneo tornare con la mente a Parasite (qui la nostra recensione), è anche vero che No Other Choice non calca troppo la mano sui conflitti di classe: la dinamica poveri-contro-ricchi non appartiene tanto alla narrazione imbastita da Park Chan-wook (che ha scritto il film con Lee Kyoung-mi, Don Mckellar e Jahye Lee), più concentrato sul cambio di prospettiva che l’improvviso cambiamento di posizionamento sociale impone all’individuo. Dall’avere tutto al (convincersi di) non possedere più niente.

Niente di materiale almeno: perché Man Su una famiglia ce l’ha, e il licenziamento non influisce sulla tenuta della stessa: certo, i due cani devono essere affidati ai nonni perché costa troppo mantenerli, e ciò ha un pessima ricaduta sulla piccola figlioletta, talentuosa suonatrice classica affetta da mutismo selettivo, per cui i pelosi animali sono l’unica compagnia gradita; e certo, il figlio più grande si avvicina a pericolose compagnie che lo portano a commettere furtarelli per cui viene presto identificato – con scandalo dei genitori.

Ma l’amorevole moglie Miri (Son Yejin) sta fermamente dalla sua parte, e pur tra molte difficoltà la compagine famigliare è l’unico appiglio cui Man Su possa continuare ad appigliarsi. Siamo lontani, insomma, dal ritratto decadente dell’istituzione famigliare vista in Old Boy o Mademoiselle, dove pure l’erotismo torbido giocava un ruolo essenziale. L’elisione dell’elemento erotico e la rivalutazione in positivo dei rapporti parentali sono un’altra spia di affrancamento dai lavori precedenti del regista, per cui No Other Choice potrebbe essere inteso come un punto di svolta per il futuro o comunque un punto di arrivo per il presente.

Ridere per non piangere

La regia di Park Chan-wook disinnesca continuamente l’acme drammatico delle scene più violente con ribaltamenti comico-grotteschi, che strappano più di una risata – a patto che abbiate il palato ricettivo al gusto per l’eccesso tipicamente asiatico. In No Other Choice è frequente divertirsi nei momenti più truculenti, esilararsi davanti agli atti più efferati, e quasi parteggiare per il protagonista ogniqualvolta si macchi di un nuovo crimine. Questo paradosso, che porta lo spettatore a condonare qualsiasi malefatta, trova un amaro contrappasso nel finale, apice emozionale in cui la vicenda assume una connotazione puramente tragica.

No Other Choice - la famiglia di Man Su
La “famiglia perfetta” di Man Su

Si tratta di una particolare tipologia di cinema della crudeltà, poiché la crudeltà in questione è esercitata dall’autore nei confronti del pubblico, piuttosto che dei suoi personaggi. Una dinamica ben esemplificata nel lontano – ma sempre moderno – Il cameraman e l’assassino (1992), di cui il film di Park riprende la strategia espositiva: far simpatizzare il pubblico con il protagonista del film per poi mostrarlo per ciò che è, e far vergognare di aver riso. Certo, in No Other Choice non si arriva all’apice di orrore del capolavoro belga, ma si tratta pur sempre del film di un regista ultrasessantenne alla sua dodicesima opera.

D’altro canto siamo anche lontani dalla condanna tout-court dei comportamenti messi in atto da Man Su – nonché dagli altri personaggi principali – indagati da Park con spirito da entomologo: lontano dal giustizialismo di von Trier, che relega il suo Jack all’inferno, ma al contempo distante dalla rabbiosa rassegnazione del Kurosawa de I cattivi dormono in pace, No Other Choice riveste in definitiva un ruolo di ammonimento rispetto alle peggiori derive possibili – i più pessimisti direbbero già in atto – della società dei consumi: a essere consumati potremmo essere noi stessi. Si adatta insomma al celebre adagio: fa ridere ma anche riflettere.

Note di merito per l’intero cast, che dosa le sfumature recitative nei momenti tranquilli per poi strabordare nei parossismi; per la fotografia in chiaroscuro di Kim Woo-hyung che bombarda l’occhio inquadrature stravaganti ma sa anche quando limitarsi alla camera fissa per il massimo effetti drammatico; e per il variegato commento musicale di Cho Young-wuk che accommiata lo spettatore con un malinconico assolo di violoncello sull’emozionante chiusura.

8
Un Park Chan-Wook in purezza che trova nell'umor nero la lente di osservazione della società contemporanea

Pro

  • Ci sono tutti i temi cari al regista, vendetta compresa
  • Tante invenzioni registiche e stile da vendere
  • Cast affiatato che brilla nelle sfumature comiche

Contro

  • Il gusto per l'eccesso non è sempre giustificato
  • Gli amanti della prima fase del regista potrebbero trovarlo accomodante
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