As Long as You’re Here Recensione

Recensito su PC

Schermata iniziale di As Long as You’re Here con opzioni di gioco e sfondo della casa illuminata dalla luce del tramonto.
Il menu principale di As Long as You’re Here, punto di partenza per un’esperienza intima e riflessiva.

Ci sono giochi che non si dimenticano, anche se durano poco. As Long as You’re Here è uno di quelli che non hanno bisogno di dire troppo per lasciare un segno. L’ho giocato perché mi interessava capire come un videogioco potesse parlare dell’Alzheimer senza banalizzarlo – e quello che ho trovato è stata un’esperienza completa, che racconta la malattia con rispetto e lucidità.

Non è un gioco che lascia domande aperte, ma uno che sa dove vuole arrivare e ti porta lì, passo dopo passo. Non punta a sconvolgere, ma a farti capire cosa significhi convivere con la perdita, e come il tempo possa cambiare forma quando la memoria comincia a svanire.

As Long as You’re Here si apre con un avvertimento: “questa è un’esperienza che non tutti sono in grado di portare a termine”, vuoi per la sensibilità del tema trattato, una malattia neurodegenerativa, vuoi per l’esperienza in sé. Non è un’esagerazione. Ma non è nemmeno un avvertimento che si perde tra le dita. E la cosa più sorprendente è che As long as You’re Here riesce a farti provare tutto senza mai forzare nulla.

Prima di proseguire, un po’ come As Long as You’re Here, ci tengo a dirlo: questa recensione sarà un po’ diversa dalle solite. Non mi limiterò ad analizzare meccaniche o scelte di design – As Long as You’re Here non è un gioco che si lascia sezionare così facilmente. È un’esperienza che tocca corde personali, e credo sia giusto parlare, e anche leggere, più con il cuore che con la penna.

Screenshot di As Long as You’re Here che mostra un foglio con un albero genealogico incompleto, fotografie sparse e forbici su un tavolo.
Ricostruire i legami familiari è il cuore dell’esperienza: l’albero genealogico di Annie prende forma.

Essere Annie

In As Long as You’re Here impersoniamo Annie, una donna che vive i primi sintomi dell’Alzheimer. Tutto si svolge in prima persona, in una casa che è allo stesso tempo rifugio e labirinto. Non ci sono puzzle né enigmi da risolvere: solo gesti semplici, quotidiani. Innaffiare le piante. Guardare fuori dalla finestra. Muoversi tra le stanze mentre il tempo, senza avvisare, cambia stagione.

L’obiettivo finale di As Long as You’re Here è quello di ricostruire l’albero genealogico della famiglia, è il pretesto per raccontarti le storie dei membri della famiglia di Annie, un po’ come succedeva con What Remains of Edith Finch.

All’inizio sembra quasi tutto normale. Poi cominci ad accorgerti che qualcosa non torna: un oggetto che non era lì, una voce compare da un’altra stanza, una giornata che sembra finire troppo in fretta. Annie non se ne accorge. Ma tu sì. Ed è lì che As Long as You’re Here ti colpisce.

Mi sono trovato a ricordare per lei. A tenere insieme frammenti di dialoghi, piccoli dettagli. È strano dirlo, ma il gioco ti mette nella posizione opposta alla protagonista: lei dimentica, tu conservi. È un rovesciamento che ti fa capire il peso vero della memoria. Non come concetto astratto, ma come responsabilità.

Ogni frase, ogni silenzio assume un significato diverso quando ti rendi conto che sei l’unico a ricordarli. Ed è così che, pian piano, As Long as You’re Here ti fa entrare dentro la malattia – non spiegandola, ma facendotela vivere.

As Long as You’re Here – Finché siete qui con me

Visivamente e sonoramente il gioco è semplice, ma non povero. La casa di Annie è un personaggio a sé: viva, mutevole, a volte accogliente e altre volte stranamente estranea. Le luci cambiano, gli oggetti si spostano, tant’è che tu, come giocatore con la memoria fresca e limpida, ti chiederai: “ma dov’è finita quella tazzina del caffè?”

Il sonoro lavora in modo sottile: non ci sono musiche invadenti, solo rumori domestici, passi, il vento che filtra da una finestra socchiusa. È un audio design quotidiano.

E poi ci sono i simboli, le metafore, che non servono essere spiegate: le stagioni che cambiano, l’acqua che scorre, il tempo che passa senza che nessuno se ne accorga. Se si guarda bene, la storia la si intuisce fin da subito – ma non è un difetto. È come sapere come finirà una canzone e ascoltarla lo stesso, solo per sentire di nuovo quella nota.

Screenshot di As Long as You’re Here che mostra un personaggio seduto in salotto tra scatole e mobili, con il testo “Elisabeth?” in sovrimpressione.
Un incontro improvviso: le conversazioni diventano frammenti di memoria da custodire.

Mai una nota di troppo

Raccontare una malattia come l’Alzheimer senza cadere nel pietismo è difficilissimo. Qui, invece, si avverte rispetto in ogni scelta. non c’è mai la sensazione che qualcuno voglia “insegnarti” qualcosa o forzarti un’emozione. È tutto scritto con una cura che lascia spazio al silenzio, e nel silenzio la storia diventa più forte.

Annie non è un simbolo. È una persona. E il gioco non la usa per commuovere: la accompagna. E tu, giocando, finisci per accompagnarla. Non sei il suo salvatore, né un osservatore esterno: sei semplicemente lì, a vivere quel tempo insieme a lei.

In un’industria dove spesso i sentimenti vengono amplificati fino a diventare retorica, questa misura è una rarità.

Breve ma intenso

Un’ora. Tanto basta per raccontare tutto. Quando sono arrivato ai titoli di coda, ho guardato la registrazione con sorpresa. Non avevo la sensazione di aver “finito” qualcosa, ma di averlo vissuto.

Nonostante la semplicità tecnica, tutto funziona. Nessun bug, nessun momento in cui l’immersione si spezza. Il ritmo è lento, ma coerente con ciò che racconta. È un walking simulator, ma ti chiede di immergerti e di aiutare Annie nel suo percorso.

Ogni elemento – grafica, movimento, silenzio – è necessario per questo racconto. Nessuna parte sembra essere messa lì tanto per. Tutto è al servizio dell’esperienza.

Screenshot di As Long as You’re Here che mostra le mani che lavorano a maglia davanti a una finestra con luce calda e palazzi sullo sfondo.
Un momento di calma: Annie lavora a maglia mentre il mondo fuori cambia stagione.

Ricordare insieme

Dopo aver finito As Long as You’re Here, ho pensato molto al concetto di memoria. Mi ha fatto riflettere su come ricordare non sia solo conservare il passato, ma mantenere viva la connessione con chi amiamo. Annie dimentica, ma io ricordo per lei. E in quel gesto c’è qualcosa di profondamente umano.

As Long as You’re Here mi ha ricordato che la memoria non è mai solo individuale. È condivisa, è fatta di legami. E quando uno di quei legami si spezza, possiamo scegliere di aiutare l’altro il più possibile.

Esperienza così sono importanti, soprattutto oggi. Dimostrano che il videogioco può essere un mezzo per riflettere, per educare all’empatia, per farci capire realtà che altrimenti ci resterebbero lontane.

Conclusioni

Non so se Annie si ricorderà di me, ma io sì, mi ricorderò di lei. Ricorderò la sua casa, l’esterno che cambiava le stagioni di punto in bianco, la voce di chi la andava a trovare, e quella sensazione di familiarità che si perde piano piano, finché tutto diventa nuovo e sconosciuto, con i ricordi che cominciano a sbiadirsi.

As Long as You’re Here parla di memoria, ma anche di presenza. Ci ricorda che stare accanto a qualcuno, anche solo in silenzio, può essere la cosa più importante.

Viviamo in un’epoca in cui i videogiochi parlano quasi sempre di conquista, sopravvivenza e potere. Ma soffermiamoci anche, qualche volta, a pensare. Pensare di passare più tempo con le persone che amiamo, di ascoltare di più, di condividere i momenti belli, ma anche quelli brutti, e di smettere di rimandare sempre a domani. Perché in fondo, ricordare è anche questo: tenere viva la parte migliore, ma anche la parte peggiore di noi negli altri. Perché un giorno, forse, saranno loro a ricordarci – finché potranno, finché saremo qui.

10
Un'esperienza breve ma indimenticabile, che racconta l'Alzheimer senza mai essere banale.

Pro

  • Potente messaggio sull'importanza dei legami

Contro

  • Assenza di localizzazione in italiano
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