140.85: come Metal Gear ci ha raccontato il presente prima che accadesse

Oltre il conflitto, la vera battaglia è per l'umanità e i legami tra le persone. Metal Gear è più di un racconto o di un videogioco.

Metal Gear Saga
Una storia da raccontare, Metal Gear ha cominciato dall'87 la sua storia, che si è poi protratta per decenni

Ricordo ancora il momento esatto in cui tutto è cominciato. Avevo tra le mani un disco grigio per PlayStation, con un titolo che non conoscevo: Metal Gear Solid. Nessuna aspettativa, nessuna consapevolezza. Solo curiosità. E poi, quella voce: “This is Snake.” Da lì in poi, nulla è stato più lo stesso.

Quel gioco non era solo un’esperienza interattiva. Era un messaggio in bottiglia, lanciato da un autore giapponese visionario, Hideo Kojima, verso un futuro che ancora non esisteva. Un futuro che oggi, nel 2025, è diventato realtà. Un mondo in cui la guerra è diventata algoritmica, l’informazione è manipolata da intelligenze artificiali, e la verità è una merce rara.

All’epoca, non sapevo nulla dei titoli MSX. Solo dopo aver finito Sons of Liberty, spinto da una fame di comprensione, sono tornato indietro. Ho recuperato Metal Gear e Metal Gear 2: Solid Snake, e ho scoperto che tutto era già lì. I semi, le idee, le ossessioni. Era come leggere il primo capitolo di un romanzo che credevi di conoscere, e renderti conto che ogni parola aveva un significato più profondo.

Oggi, mentre il mondo guarda a Metal Gear Solid Δ: Snake Eater come punto d’ingresso per una nuova generazione, sento il bisogno di raccontare questo viaggio. Non solo per celebrare una saga, ma per mostrare come Metal Gear abbia saputo anticipare il nostro presente. E forse, anche il nostro futuro.

Capitolo I – Le origini: Metal Gear e Metal Gear 2: Solid Snake

Metal Gear MSX
La copertina di Metal Gear per MSX

Il mondo dei videogiochi è dominato da eroi muscolosi, salti pixellati e armi a ripetizione. Ma in Giappone, un giovane autore della Konami, frustrato dai limiti tecnici dell’hardware MSX2, decide di fare qualcosa di diverso. Hideo Kojima non può riempire lo schermo di nemici, quindi li toglie. E inventa un nuovo genere: lo stealth.

Metal Gear è un gioco che ti chiede di non combattere. Di nasconderti, di osservare, di pensare. Solid Snake, il protagonista, non è il solito eroe che spara a tutto: è uno che si muove nell’ombra, parla poco e osserva molto. Lo spediscono dentro una base nemica per eliminare il Metal Gear, una carro aramto bipede capace di lanciare testate nucleari ovunque. Già allora, anche senza saperlo spiegare bene, sentivi che era una critica alla follia della guerra fredda e alla logica assurda della deterrenza

Ma è con Metal Gear 2: Solid Snake (1990) che Kojima comincia davvero a costruire il suo universo. Qui il gioco si migliora trame più intricate, dialoghi che si allungano e un’ambizione che non ti aspetti da un titolo dell’epoca. Introduce Big Boss, il mentore traditore, e pone le basi per una riflessione che attraverserà tutta la saga: cosa significa essere un soldato? Chi decide chi è il nemico? E cosa resta dell’uomo, quando tutto ciò che fa è combattere?

Giocare questi titoli dopo Sons of Liberty è stato come scoprire che il prologo di un romanzo era in realtà il suo cuore segreto. Ogni nome, ogni svolta, ogni dialogo aveva un’eco che risuonava nel futuro. E soprattutto, si intuiva già la firma di Kojima: la capacità di fondere gameplay, cinema, filosofia e provocazione in un’unica esperienza.

In un’epoca in cui i videogiochi erano ancora considerati giocattoli, Metal Gear osava parlare di guerra fredda, di armi nucleari, di etica militare. E lo faceva con una lucidità che oggi, a distanza di quasi quarant’anni, appare profetica. In un mondo in cui i conflitti si combattono con droni, e dove la minaccia nucleare è tornata a farsi concreta – basti pensare alla crisi tra Israele e Iran, o alla tensione permanente tra superpotenze – Metal Gear ci ricorda che la guerra non cambia mai. Cambiano solo i mezzi.

Capitolo II – La rivoluzione: Metal Gear Solid (1998)

Metal Gear Solid
La copertina di Metal Gear Solid

Ho infilato quel disco argentato nella mia vecchia PlayStation senza pensarci troppo, aspettandomi il solito sparatutto. Non avevo idea che stavo per inciampare in qualcosa che avrebbe ribaltato il mio modo di vedere i videogiochi. Metal Gear Solid non migliorava solo la grafica: ti cambiava la testa, come una rivoluzione mascherata da intrattenimento.. Kojima aveva preso le fondamenta dei titoli MSX e le aveva trasformate in un’opera cinematografica interattiva, capace di parlare al cuore e alla mente.

La prima cosa che mi colpì fu il tono. Serio, adulto, ma mai pedante. Il gioco parlava di armi nucleari, di genetica, di traumi, di ideali. E lo faceva con una regia che sembrava uscita da un film di guerra, ma con la libertà del videogioco. Le conversazioni via codec erano dense, piene di riferimenti storici, scientifici, filosofici. Eppure, tutto era perfettamente integrato nel gameplay.

Solid Snake era un antieroe perfetto: cinico, stanco, ma ancora capace di lottare. E attorno a lui, un cast di personaggi memorabili, ognuno portatore di un tema: la lealtà, il sacrificio, la vendetta, la redenzione. Alcuni momenti mi hanno segnato profondamente. Non posso descriverli per non rovinare l’esperienza a chi ancora deve scoprirli, ma posso dire che Metal Gear Solid è uno dei pochi prodotti che mi ha fatto commuovere. E non una sola volta.

Dal punto di vista tematico, il gioco introduce il concetto di “memi” – idee che si trasmettono come geni – e lo fa in un’epoca in cui internet era ancora agli albori. Parla di come l’informazione può essere più pericolosa delle armi, e di come la verità sia spesso una costruzione. Rigiocandolo oggi, nel 2025, sembra scritto per il nostro tempo.

Ma c’è un personaggio, in particolare, che mi ha segnato più di tutti: Il ninja. Un personaggio che può essere compreso solo giocando agli originali per MSX.

Il ninja è un soldato spezzato. Un uomo trasformato in macchina, privato della sua identità, della sua volontà, del suo corpo. È il risultato estremo della guerra: un essere umano ridotto a strumento. Eppure, nel suo delirio, nella sua sofferenza, c’è più umanità che in molti altri personaggi. La sua voce metallica, i suoi ricordi frammentati, il suo desiderio di morire con uno scopo… tutto in lui grida dolore.

Rivederlo oggi, nel 2025, è come guardare un veterano dimenticato, abbandonato da un sistema che lo ha usato e poi scartato. In un’epoca in cui i soldati vengono sostituiti da droni, e i traumi di guerra sono ancora stigmatizzati, Il ninja è un monito: la guerra non finisce quando si abbassa il fucile. Continua nella mente.

E Snake, nel confronto con lui, capisce qualcosa di fondamentale: che anche lui è solo un ingranaggio. Che la linea tra eroe e mostro è sottile. Che la verità non è mai assoluta. Lì, all’improvviso, capisci che Metal Gear non è più solo missioni e infiltrazioni: è una lente puntata sull’identità, sui ricordi che ti perseguitano e sul peso delle scelte sbagliate.

Oggi la verità scivola via come acqua tra le dita: cambia forma, colore e sapore a seconda di chi la racconta. In cui la realtà è filtrata da algoritmi, e la percezione è più importante dei fatti. In cui le guerre si combattono anche con le narrazioni. Metal Gear Solid ci aveva già avvertiti: la guerra dell’informazione è la guerra del futuro. E oggi, quella guerra è qui.

Capitolo III – Il caos dell’informazione: Metal Gear Solid 2 – Sons of Liberty (2001)

Metal Gear Solid 2
La copertina di Metal Gear Solid 2: Sons of Liberty

Al lancio di Sons of Liberty, il mondo non era più quello di qualche anno prima: nuove paure, nuove guerre, nuove domande. Era il 2001, e pochi mesi dopo il lancio, l’11 settembre avrebbe riscritto la storia. Ma Kojima, come se avesse previsto tutto, aveva già scritto un gioco che parlava di terrorismo, di controllo dell’informazione, di post-verità.

All’inizio, lo ammetto, rimasi spiazzato e molti fan non lo accettarono(lo capirai giocandolo). Ma io, col tempo, ho capito che quella scelta era geniale. Ciò che vedevamo era lo specchio del giocatore: inesperto, confuso, manipolato. E attraverso di lui, Kojima ci mostrava quanto fosse facile essere ingannati.

Il gioco è un labirinto narrativo. Dentro c’è di tutto: IA che decidono cosa puoi sapere, organizzazioni nell’ombra che scelgono quale versione dei fatti diventa “ufficiale”, identità che si sbriciolano e si ricompongono. È un gioco che ti strappa via la quarta parete e ti lascia con una sensazione fastidiosa: forse non puoi fidarti di niente. E che, incredibilmente, anticipa il mondo dei social, delle fake news, della sorveglianza algoritmica.

Rigiocarlo oggi, nell’era di ChatGPT, dei modelli linguistici generativi, dei deepfake e delle IA che scrivono articoli, generano immagini, creano propaganda, è quasi inquietante. Le AI del gioco, i Patriots, parlano di “controllo dei memi”, di “filtraggio dell’informazione”, di “saturazione cognitiva”. Concetti che nel 2001 sembravano fantascienza, ma che oggi sono cronaca.

Pensiamo a come funziona oggi la rete: ogni giorno siamo esposti a migliaia di contenuti, molti dei quali generati da intelligenze artificiali. Alcuni sono innocui, altri manipolativi. Le IA possono creare notizie false, simulare voci, replicare volti. Possono scrivere interi articoli politici, generare immagini di guerra mai avvenute, o addirittura simulare dichiarazioni di leader mondiali. In un conflitto come quello israelo-palestinese, ad esempio, la battaglia non si combatte solo sul campo, ma anche nei feed social, dove video e immagini – spesso alterati – vengono usati per influenzare l’opinione pubblica globale.

Kojima aveva previsto tutto questo. In Sons of Liberty, i Patriots non vogliono solo controllare il potere militare: vogliono controllare la narrazione. Decidono cosa è degno di essere ricordato e cosa no. E lo fanno attraverso un’intelligenza artificiale che seleziona, filtra, cancella. È la distopia perfetta per il nostro tempo.

E poi c’è il protagonista. Un personaggio che molti all’epoca odiarono, ma che oggi appare come il più umano di tutti. È il simbolo di una generazione cresciuta online, bombardata da modelli irraggiungibili, da narrazioni prefabbricate, da identità fluide e instabili. il protagonista siamo noi, nel 2025: confusi, disillusi, ma ancora capaci di scegliere.

Il messaggio finale del gioco è chiaro: in un mondo dove tutto può essere manipolato, l’unica verità che conta è quella che scegliamo di costruire. È un invito alla responsabilità, alla disobbedienza, alla consapevolezza. E adesso, nel 2025, quel messaggio suona ancora più forte, quasi come un avvertimento gridato all’orecchio.

Capitolo IV – L’uomo e la macchina: Metal Gear Solid 3 – Snake Eater (2004)

Metal Gear Solid 3
La copertina italiana di Metal Gear Solid 3: Snake Eater

Dopo il labirinto narrativo di Sons of Liberty, Kojima spiazza tutti: invece di andare avanti, mette la marcia indietro. Con Snake Eater ci trascina negli anni ’60, tra il gelo e la paranoia della Guerra Fredda, per raccontarci da dove nasce Big Boss, il futuro nemico di Snake. Ma più che un semplice prequel, è una tragedia in stile classico, un racconto di crescita, un viaggio tra eroismo e tradimento.

Il gioco abbandona le ambientazioni urbane per immergerci nella giungla. Non ci sono radar, solo natura, silenzio, sopravvivenza. Bisogna cacciare, curarsi, mimetizzarsi. Qui tutto si riduce all’osso: niente orpelli, solo la sopravvivenza e l’uomo per quello che è, fragile, pieno di paure, schiacciato tra il dovere e ciò che sente giusto.

Naked Snake è un personaggio diverso da Solid Snake. È più ingenuo, più idealista. Crede ancora negli ordini, nella missione, nella patria. Ma il viaggio che compie lo cambierà per sempre. E il finale – che non posso raccontare – è uno dei più potenti mai scritti in un videogioco. Mi ha lasciato in silenzio, con un nodo alla gola, e una domanda che ancora oggi mi perseguita: quanto costa diventare un eroe?

Snake Eater è anche un gioco profondamente antimilitarista. Mostra come la guerra sia spesso il risultato di giochi politici, di interessi economici, di ideologie manipolate. E lo fa con una delicatezza rara. Qui non c’è un copione con eroi e villain: solo persone, spesso confuse, che si muovono dentro ingranaggi più grandi di loro.

Oggi, nel 2025, tra guerre intricate e ferite storiche — come quella infinita tra Israele e Palestina, dove giustizia e vendetta si confondono — Snake Eater ti costringe a ricordare che ogni soldato porta con sé una storia personale. Che ogni guerra è anche una tragedia personale. E che la vera forza non sta nell’obbedire, ma nel sapere quando disobbedire.

Capitolo V – Il capitolo perduto: Peace Walker come Metal Gear Solid 5

Metal Gear Solid 5 Peace Walker
La concept art di Metal Gear Solid 5: Peace Walker

Quando Kojima annunciò Peace Walker, molti lo considerarono un semplice spin-off per PSP. Un gioco minore, pensato per una console portatile, lontano dai fasti di PlayStation 3. Ma chi lo ha giocato davvero, chi ha ascoltato le conversazioni via codec, chi ha seguito la costruzione di Mother Base giorno dopo giorno, sa che Peace Walker non era un episodio secondario. Era il vero Metal Gear Solid 5. E avrebbe dovuto esserlo.

Kojima stesso lo disse, in più interviste: PEace Walker era il seguito diretto di Snake Eater. Era il cuore della trasformazione di Naked Snake in Big Boss. Era il momento in cui l’ideale si piega alla realtà, in cui il soldato diventa comandante, e il comandante diventa ideologo. Era il punto di svolta.

Ambientato in Costa Rica, Peace Walker ci mostra un mondo senza eserciti ufficiali, dove la guerra è privatizzata, dove la nazioni si affidano a mercenari per difendere i propri interessi.  È lì che nasce l’utopia di Big Boss: I Militaires Sans Frontières. Un esercito senza bandiera, senza ideologia, solo con una regola: combattere per sé stessi. Ma è davvero libertà questa? O è solo un’altra forma di schiavitù?

Il gioco è strutturato come una serie TV: missioni brevi, episodi autoconclusivi, archi narrativi che si intrecciano. Kojima anticipa il binge-watching quasi, il ritmo frammentato della narrazione moderna. Eppure, sotto quella superficie leggera, c’è una riflessione profonda sulla deterrenza nucleare. Peace Walker introduce l’idea di una macchina pensante, capace di decidere autonomamente se lanciare una testata. Una IA che calcola la minaccia, valuta la risposta, e agisce.  È il sogno della guerra automatizzata. Ed è anche il suo incubo.

La scelta di pubblicarlo su PSP ha penalizzato la sua percezione. Molti lo hanno ignorato, lo hanno considerato un episodio minore. Ma Peace Walker è il ponte tra Snake Eater e The Phantom Pain. È il momento in cui la saga cambia pelle. E chi lo ha vissuto, sa che lì, in quelle missioni tropicali, c’era già tutto: il peso delle scelte e la nascita del sistema. Anche questo gioco poteva fungere da monito: quando la guerra diventa un servizio, la pace diventa un prodotto. E chi lo vende, decide chi la merita.

Capitolo VI – La guerra come sistema: Ground Zeroes e The Phantom Pain

Metal Gear Solid V
La copertina di Metal Gear Solid V: Ground Zeroes + The Phantom Pain

Dopo Peace Walker, la saga entra in una nuova era. Ground Zeroes è il prologo. Breve, intendo e doloros. Un assaggio di ciò che verrà. E poi The Phanotm Pain, il capitolo più controverso.

In Ground Zeroes, Kojima ci mostra il prezzo dell’ideologia. Mother Base viene distrutta. I sogni di Big Boss si infrangono. E il comandante cade in coma. È il momento della perdita.

Quando di risveglia, nove anni dopo, il mondo è cambiato. E lui è cambiato. The Phantom Pain non è solo un gioco. È una ferita aperta. Il racconto di un uomo che ha perso tutto, e che cerca di ricostruire. Ma ciò che costruisce non è più un’utopia. È una macchina da guerra.

Il mondo è aperto e vasto, le missioni sono sparse, le verità nascoste. E il giocatore, come Big Boss, deve scegliere cosa fare. Chi salvare? Il gioco non ti guida molto, ti lascia da solo, e in questa solitudine, ti chiede: cosa significa comandare?

Ma è nei bambini soldato che The Phantom Pain colpisce più duro. In Africa, in Medio Oriente, tra le rovine e le mine, ci sono loro: bambini armati, addestrati. Non sono nemici, sono vittime. E Snake può salvarli, portarli a casa, addestrarli, ma possono davvero considerarsi liberi alla fine?

Nel mondo reale le Nazioni Unite parlano di riabilitazione e di reinserimento. Ma chi ascolta davvero quei bambini? chi li cura? Chi li aiuta a dimenticare? The Phantom Pain non dà risposte. ti lascia con il dubbio, il peso e la responsbilità.

E poi c’è la verità, o meglio, la sua assenza. Il gioco è incompleto, mancano pezzi e spiegazioni. Sappiamo quasi tutti gli screzi tra Kojima e Konami in quel periodo, la situazione non era tra le più rosee tra le due parti, ma voglio considerare The Phantom Pain come un’allegoria della guerra che non ha mai una fine chiara. Ha solo cicatrici.

Nel 2025, in un mondo dove i conflitti sono ciclici, dove le guerre si ripetono sotto nuove forme, The Phantom Pain ci ricorda che il dolore non passa. Si trasforma, si adatta e continua. E che anche noi, come Big Boss, portiamo dentro una parte di quella ferita. Invisibile, ma presente.

Capitolo VII – Le deviazioni: Ac!d, Survive, Rising e gli altri esperimenti

Metal Gear Solid Peace Walker
La copertina finale di Metal Gear Solid Peace Walker

Non tutti i giochi della saga principale portano la firma diretta di Kojima. E non tutti sono stati accolti con entusiasmo. Ma anche nelle deviazioni, Metal Gear ha saputo riflettere il suo tempo.

Metal Gear Ac!d (2004), ad esempio, è un esperimento tattico a turni per PSP. Un gioco di carte, lontano dal canone, ma affascinante nella sua stranezza. È come se gli sviluppatori avessero voluto dire: “Anche la guerra può essere un gioco di strategia astratta.” E in un certo senso, lo è. Oggi, nel 2025, le guerre si combattono anche con algoritmi predittivi, con simulazioni, con modelli di rischio. Le decisioni militari vengono prese da IA che analizzano scenari in tempo reale. Ac!d era una metafora, prima ancora che una meccanica.

Poi c’è Metal Gear Rising: Revengeance (2013), sviluppato da PlatinumGames. Un action frenetico, iper-stilizzato, che mette Raiden al centro di una riflessione sulla violenza, la vendetta e il transumanesimo. Il gioco è ambientato in un mondo dove i cyborg sono la norma, e dove la guerra è diventata un business. Suona familiare? Oggi, con l’avanzare della robotica militare, dei soldati potenziati, dei droni autonomi, Rising sembra meno esagerato di quanto apparisse all’epoca.

E poi c’è Metal Gear Survive (2018). Il titolo più controverso. Un survival cooperativo ambientato in una dimensione parallela, senza Kojima. Un gioco che molti fan hanno rifiutato, me compreso. Non tanto per la qualità, quanto per l’assenza di anima. Era Metal Gear solo nel nome. Mancava la visione, la critica, la voce. Era come leggere un romanzo di Orwell riscritto da un algoritmo: corretto, ma vuoto.

Eppure, anche Survive ci dice qualcosa. Ci mostra cosa succede quando si toglie l’autore da un’opera. Quando si cerca di replicare una formula senza comprenderne il senso. È un monito, in un’epoca in cui l’IA può generare storie, dialoghi, persino giochi. Ma può l’IA generare significato?

Capitolo VIII – Oltre Metal Gear: PT, Death Stranding, OD, Physint

Death Stranding
La copertina della Director’s Cut di Death Stranding

Dopo The Phantom Pain, Kojima lascia Konami. O forse è Konami a lasciare lui. La verità, come sempre, è sfumata. Ma ciò che conta è che l’autore si reinventa. Ma prima di andarsene pubblica una demo insieme a Guillermo del Toro: PT.

PT (Playable Teaser) è un’esperienza horror breve, claustrofobica, geniale. Un loop infinito in un corridoio, dove ogni dettaglio cambia, ogni suono inquieta, ogni passo è un enigma. Era il preludio a Silent Hills, mai nato. Ma anche così, PT è diventato leggenda. Un esempio perfetto di come il linguaggio videoludico possa evocare terrore senza mostri, solo con l’attesa.

Dopo aver lasciato Konami, apre uno studio tutto suo, anche se il nome è rimasto Kojima Production, e comincia a lavorare ai suoi nuovi prodotti.

Arriva Death Stranding (2019). Un gioco divisivo, lento, contemplativo. Ma anche profetico. Parla di isolamento, di connessione, di un’umanità frammentata che cerca di ricucire i legami. Quando uscì, molti lo trovarono strano. Poi arrivò la pandemia. E all’improvviso, Death Stranding sembrava scritto per quel momento. Oggi, nel 2025, in un mondo ancora segnato da crisi sanitarie, migrazioni climatiche e solitudini digitali, il messaggio del gioco è più attuale che mai: siamo tutti portatori. E ciò che trasportiamo non è solo merce, ma speranza.

Con OD (Overdose), Kojima torna all’horror, ma lo fa con l’IA. Il gioco è sviluppato in collaborazione con Microsoft e sfrutta tecnologie cloud e intelligenza artificiale per creare un’esperienza adattiva, che cambia in base al giocatore. È un passo oltre. Un esperimento che mette in discussione il concetto stesso di autore. Se un gioco può cambiare da solo, chi lo scrive davvero?

E infine c’è Physint, il progetto annunciato come “il ritorno all’action spionistico”. Un nuovo Metal Gear spirituale? Forse. Ma con Kojima, nulla è mai lineare. Potrebbe essere un gioco, un film, un’esperienza interattiva. O tutte queste cose insieme. In un’epoca in cui i confini tra media si dissolvono, Kojima continua a essere un pioniere.

Capitolo IX – L’eredità di Metal Gear

Cosa resta, oggi, di Metal Gear? Resta una saga che ha saputo parlare della guerra senza glorificarla. Che ha raccontato la verità come costruzione, l’identità come maschera, l’informazione come arma. Che ha anticipato il nostro presente con una lucidità inquietante.

Nel 2025, viviamo in un mondo dove le IA scrivono articoli, dove i governi usano i social per manipolare le masse, dove la guerra è diventata ibrida: fatta di droni, di cyberattacchi, di propaganda. Un mondo in cui la realtà è sempre più difficile da distinguere dalla finzione. E in questo mondo, Metal Gear è più rilevante che mai.

Ma resta anche una ferita aperta. Perché senza Kojima, Metal Gear non è più lo stesso. Delta sarà un remake tecnicamente perfetto, ma potrà mai avere la stessa anima? Potrà mai sorprenderci, provocarci, commuoverci come faceva la saga originale?

Io credo di no. Perché Metal Gear non era solo una serie di giochi. Era la voce di un autore. Un autore visionario, geniale, a volte contraddittorio, persino provocatorio. Ma sempre sincero. E in un’epoca in cui tutto è generato, ottimizzato, calcolato, la sincerità è l’unica rivoluzione possibile.

Capitolo X – Il pericolo del mito

The Boss
Immagine di The Boss, la conoscerai se giocherai a Delta

C’è un filo rosso che attraversa tutta la saga di Metal Gear: la tendenza a trasformare le persone in simboli. A prendere esseri umani, con le loro contraddizioni, i loro errori, le loro fragilità, e scolpirli nella pietra della leggenda. È un meccanismo che si ripete nella storia raccontata e in quella reale. E ogni volta porta con se conseguenze.

Nella lore, ci sono figure che vengono idealizzate e trasformate in ideali assoluti. I loro gesti diventano dogmi, le loro parole vengono tramandate come verità. Ma dietro ogni leggenda c’è sempre una persona. E quando dimentichiamo questo, quando smettiamo di vedere l’essere umano e iniziamo a vedere solo il mito, perdiamo qualcosa di essenziale: la capacità di comprendere.

Perché il mito non ammette dubbi. Non accetta critiche. Non evolve. E così facendo, diventa prigione.

Lo stesso rischio esiste anche fuori dal gioco. Quando parliamo dell’autore, della sua visione, della sua coerenza, è facile cadere nella tentazione di trasformarlo in un’icona. Di pensare che ogni sua scelta sia perfetta, ogni sua parola definitiva. Ma anche lui è un essere umano. Geniale, sì. Visionario, certo. Ma umano.

E allora, forse, il messaggio più importante che Metal Gear ci lascia è proprio questo: non idolatrare. Né i personaggi, né chi li ha creati. Ammira, analizza, discuti. Ma non perdere il senso critico. Perché la vera eredità di questa saga non è un pantheon di eroi, ma un invito a pensare e a dubitare.

E se c’è una rivoluzione che vale la pena combattere, oggi, nel 2025, è proprio questa: liberarsi dai miti e tornare a guardare l’umano.

Per approfondire alcune voci potete visitare la wiki di Metal Gear, contiene molte informazioni interessanti che potrebbero esservi sfuggite durante le vostre prime run, o anche successive

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