[RETRO] The City Of Lost Children – Una perla molto nascosta?

Bambini perduti
The City Of Lost Children ha un aspetto leggermente più vitale su DOS

Il primo gioco non coincide sempre con il primo amore. Almeno, questo fu il mio caso quando, alla tenera età di cinque anni, ricevetti la mia prima console. Una fiammante PSone accompagnata da quello che per un inverno fu un enigma irrisolvibile. Cadde nel dimenticatoio nell’istante in cui comprai la versione casalinga di Radikal Bikers, ma quella è un’altra storia. Sto parlando di The City of Lost Children, per quelli che se lo ricordano. Un’avventura con una bambina non ben definita come protagonista e senza uno scopo apparente, se non fosse stato per qualche linea guida nel libretto di gioco che si limitava a dire che “In questa città c’è qualcosa che non va”. Seguiva una evocativa quanto inutile descrizione dell’ambiente di gioco con “moltissimi posti da esplorare” che si concludeva con il solo dettaglio d’interesse per il giocatore, facilmente intuibile dal titolo: “…che fine hanno fatto tutti i bambini?”. Con premesse così poco solide, l’esito fu inevitabile: etichettato come “brutto e noioso” finì in poco tempo seppellito sul fondo di uno scatolone. Uno scatolone che decisi di riaprire qualche mese fa, intenzionato a ritentare la sorte. Ancora una volta, le meccaniche legnose e l’incomprensibilità della missione mi spinsero indietro, in maniera quasi territoriale. Fu allora che, digitando su internet, appresi la verità. The City of Lost Children prima di essere un gioco era un film. Nello specifico, un cult del cinema steampunk dall’omonimo titolo, La Citè des Enfants Perdus (1995). Solo dopo averlo visto, la versione video ludica assunse tutto un’altro aspetto. L’avventura aveva senso, ma quel senso era chiaro solo a qualcuno con una visione del prodotto cinematografico alle spalle.

Un titolo (quasi) incompreso
Nonostante la scarsa longevità, ambientazione e sonoro rendono The City Of Lost Children esteticamente apprezzabile

Sviluppato dalla defunta Psygnosis e pubblicato prima per DOS e poi per Playstation nel 1997, il caso di The City of Lost Children può considerarsi antesignano degli attuali, ma non troppo considerati, contenuti bonus nel secondo dvd di un qualunque film in edizione speciale. Un’avventura troppo breve – due ore appena –per essere definita completa, che ottiene profondità solo se vista in rapporto al prodotto da cui proviene. Infatti, sebbene il filo narrativo che la attraversa sia lo stesso del film, l’azione si concentra su una serie di compiti marginali che nel finale lasciano il giocatore interdetto. Le meccaniche sarebbero meno tediose se fossero  ridotte a quelle di un comune punta e clicca ma, probabilmente nel tentativo di renderlo più al passo con i tempi, il gioco nell’insieme si presenta come un’avventura in 3D con sezioni di esplorazione e enigmi da risolvere. Controllando Miette, un’orfana membro di una baby-gang di ladri, ci si trova catapultati senza troppe cerimonie all’interno di in un’aula scolastica, dove la protagonista riceverà il primo compito: rapinare la baracca del cassiere. Analoghe saranno le successive missioni fino all’eventuale conclusione della narrazione, che procede di pari passo con il completamento di esse ma ne è totalmente svincolato. In alcuni casi, al giocatore sarà richiesto l’utilizzo di oggetti per superare un ostacolo, spesso in modi impensabili, costituendo così l’unico fattore di difficoltà. Degno di nota è il comparto grafico, leggermente migliore da DOS a PS1, che unisce modelli tridimensionali esteticamente appaganti a un’ambientazione in perfetta sintonia con l’atmosfera della pellicola. In ugual misura, occorre riconoscere l’efficacia della colonna sonora, capace di incorniciare lo scenario portuale sorprendentemente bene.

Il risultato, nonostante l’inconsistenza della trama previa visione del film, è nel complesso funzionale. The City of Lost Children dimostra di essere un titolo non necessariamente soddisfacente da un punto di vista dell’azione, ma piacevole per chiunque desideri ultimare la propria esperienza nell’imprecisato universo descritto dal lungometraggio. Inoltre, lungi dal poter essere considerato un opera d’arte, per l’ideale estetico da cui esso attinge, è anche consigliabile ai simpatizzanti della sottocultura steampunk.

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