Ironheart Recensione
Una miniserie funzionale e che evita con spensieratezza i difetti delle serie meno potenti dell'arsenale Marvel Television. Una tecnomagia che non mira alla perfezione e per questo è profondamente memorabile.
C’è qualcosa che funziona davvero molto in Ironheart, l’ultima serie Marvel. Non sono le sue scazzottate, che fanno quel che devono, ma i momenti di dialogo, di silenzio, di difficoltà, di discussione e confronto fra i personaggi. È già la seconda volta in un paio di mesi che un prodotto MCU finisce per voler gestire più gli spazi fra i momenti supereroistici che quei momenti stessi, e per la seconda volta riesce nell’intento. In *Thunderbolts il centro era pressocché perfetto, mentre qui la messa a schermo del copione di Chinaka Hodge colpisce il tabellone ma non nel suo bersaglio più prezioso.
Le vette di Wandavision e Agatha All Along sono personalmente distanti, ma Ironheart mi ha piacevolmente sorpreso, restituendomi ben più di quanto avessi investito in esso in fatto di aspettative, e lasciando aperti 2 importanti spiragli sulle storyline future di Riri Williams (Dominique Thorne) e… qualcun altro.

Ironheart Recensione
Di tutte le critiche mosse a Black Panther Wakanda Forever, l’unica che ho abbastanza condiviso al tempo era quella mirata al personaggio di Riri Williams, l’Ironheart che nei fumetti prende in mano “l’eredità” eroistica di Tony Stark, e che nel secondo film di Black Panther trovava un piccolo spazio per esserci presentata e per vederla, brevemente, in azione.
In quel lungometraggio Riri si ritrovava coinvolta sin troppo velocemente e fu gestita in modo abbastanza raffazzonato, tanto da farla sembrare un’aggiunta alla sceneggiatura in post, invece che parte integrante delle vicende dall’inizio. La serie Ironheart impara dagli errori di quella gestione, soprattutto in fatto di rispetto per il personaggio (non parlo del rispetto verso la controparte comics, ma del personaggio in sé) e di qualità della CGI, e imbastisce una post-origin story che serve più a definire i contorni di una Riri che finalmente decide di combattere, invece che mostrarci come tutto è iniziato.
Le differenze con l’Ironman di RDJ sono percepibili: lui era arrogante e sfidava costantemente i bulli del mondo, al costo di mettere in pericolo Pepper e le cose più importanti della sua vita, mentre Riri pensa sempre prima ai suoi rapporti più stretti, proponendo più e più volte di lasciare la città e non guardarsi indietro, dettaglio che non contrappone, come si potrebbe pensare, eroismo e codardia, ma piuttosto l’egocentrismo di un narcisista da un lato e il senso di necessità di proteggere la propria famiglia a costo di tutto dall’altro.
“Non lo famo, ma lo dimo”
Il pilot non rende troppo giustizia alla serie, con dialoghi piuttosto pesanti – e pedanti – che mirano a spiegare continuamente Riri invece che lasciarlo fare alla storia o a Riri stessa, tanto che inizialmente il personaggio è davvero fin troppo definito dalle persone che ha intorno, più che da sé stessa. La CGI è poca ma funzionale, e le interpretazioni sono nella norma, nulla di più di quanto mi aspetto da attori per la prima volta su schermo.
Nel percorso supereroistico di Ironheart c’è sin dal primo episodio una piccola leggerissima dualità nel fatto che a sé stessa e alla sua migliore amica (persa in una sparatoria tra gang in quartiere) ha sempre detto di voler cambiare il mondo, velocizzando i tempi di risposta dei soccorsi in caso di emergenza tramite l’uso della tuta, ma poi ad alta voce e agli altri sembra parlare più di rispetto, di voler arrivare a ricevere il rispetto che merita dal mondo, il tutto senza lasciare Chicago per andare verso conglomerati urbani più tech e che forse meglio saprebbero accoglierla, in fatto di talento.

Questo concetto di base, questa frizione fra motivazione pubblica e ragioni personali di Riri la pone su un interessante bivio, a metà fra i vigilantes urbani come Daredevil e quelli portati ad una difesa più a lungo raggio come lo stesso Spidey. La differenza di mezzi tra Riri e Stark sembra qui tra l’altro solo nominale, perché Riri sembra in grado di arrangiarsi a prescindere dalla situazione.
Dopo il pilot
Dal secondo episodio Ironheart migliora sensibilmente, lasciandosi indietro i dialoghi pesanti e i caratteri della protagonista raccontati da terzi, e inizia a capirsi la destinazione ludica del prodotto Marvel Television. Purtroppo da qui al finale non ci sono veri passi in avanti per quanto riguarda lo storyboarding e la regia, molto traccianti di percorsi non solo già definiti da altre produzioni Marvel ma addirittura arrivati ad essere piuttosto anonimi e senza identità.
Come anticipavo, Ironheart vuole piacevolmente mirare a qualcosa di molto più intimo e familiare – nel senso di concentrato sulla famiglia – di quanto facciano altre serie Marvel Television recenti, scelta che si riflette in una miniserie che, in 6 episodi, racchiude piacevoli momenti di azione ma non ne fa un centro strutturale importante.
Tutto ruota attorno alle rapine che un gruppo di ladri dalle varie specialità (pensa alla versione Spy Kids di un Ocean’s Eleven, in un certo senso) compie, essenziali vendette economiche contro diversi CEO motivate da un qualche torto subito dal loro leader Hood, possessore di un mantello dagli apparenti poteri magici. Dopo essere stata allontanata dalla scuola nella quale era grazie alla vincita di una borsa di studio Stark, Riri ha bisogno di continuare la sua ricerca nella tuta e interseca le strade di questo gruppetto di ladri tech.
I comprimari fanno quel che devono senza brillare troppo, lasciando forse volontariamente il grosso del lavoro emotivo e caratteriale alla madre di Riri, al fratello della sua amica morta e all’interfaccia digitale della tuta, N.A.T.A.L.I.E., nata da uno scan mentale approfondito dei ricordi di Riri risultato in una riproduzione digitale di, appunto, Natalie, proprio la sua migliore amica morta.

La parte più piacevole del percorso narrativo di Ironheart è l’intersezione costante con il reparto più magico dell’MCU, una sinergia finora mai vista e che apre la possibilità a diversi interessanti risvolti: tech e magia possono essere pericolose già da sole, quindi non posso immaginare quanto le due cose possano risultare esplosive – forse mortali – quando si ritrovano a condividere spazi.
Lights of Chicago
Inaspettatamente per una produzione Marvel Television, Ironheart mi ha sorpreso per il “senso del luogo” che stimola costantemente. Personalmente conosco solo la Chicago dei telefilm, quella di E.R. in particolare, ma Ironheart fa della città una vera altra protagonista, mai risaltando particolari scorci della città ma portandole rispetto nella sua quotidiana bellezza. Ho notato inoltre un reparto illuminazione davvero capacissimo: ogni scena è illuminata a dovere, con fonti di luce organiche e posizionate in modo sensato.
Chicago non è solo scorci di luce e strade, ma anche e soprattutto sound, e Ironheart ha un’ampia collezione di pezzi perfetti nel ricreare il suono della città, sempre zompettanti fra soul e hiphop più puro, in piena coerenza con la natura ground level della serie.
Ormai ho imparato a desintonizzare il mio cervello alla presenza di dialoghi troppo “in stile Marvel”, con battutine costanti e interruzioni del flow di dialogo fini a sé stesse: la buona notizia è che anche in questo Ironheart mostra consapevolezza dei limiti di genere, e evita del tutto l’umorismo Waititiano di molte altre produzioni precedenti, con dialoghi più tendenti a quelli di una striscia a fumetti contemporanea che ai botta e risposta di un Thor Love & Thunder, per fare un esempio, e ben lontani dalla sontuosità oscariana di un The Eternals. Ironheart parla il linguaggio della strada, in un certo senso.
Ritmi e lunghezze da inchino
Con il districarsi della trama, mi sono ritrovato ad apprezzare la struttura da miniserie di Ironheart. Con episodi, quasi tutti, fra i 40 minuti e i 50, sarai davanti ad un prodotto dal ritmo molto godibile, e che finirà forse persino prima di quanto ti aspetteresti. Il grosso conflitto centrale è risolto in modo relativamente veloce, nel sesto episodio, ma con la giustificazione che il vero nemico si svela proprio durante la seconda metà del finale. È un nemico che non ti voglio spoilerare, ma che ho molto apprezzato soprattutto per la scelta di casting.

C’è una percepibile divisione fra i primi 3 episodi e gli ultimi 3, ma non la ritengo così profonda da giustificare la release in 2 spezzoni che Disney+ ha deciso di seguire. Si parla comunque di due sole tranche, pubblicate a 1 settimana di distanza l’una dall’altra, quindi non ci sono le basi per urlare al crimine, ma non nascondo un certo desiderio di tornare a release settimanali di un episodio, lasciando così a tutti il tempo di mettersi in pari, e di discutere episodio dopo episodio lo svolgersi della serie.
Il finale non solo è un cliffhanger, ma stranisce – in senso positivo – per il coraggio di alcune scelte narrative, ardore che lo porta nuovamente in contatto con il *Thunderbolts di Jake Schreier. Dove il secondo parlava di depressione, Ironheart parla di scelte, di ciò che scegliamo di fare per proteggere chi abbiamo accanto ma anche – e soprattutto – dei sacrifici che siamo pronti a fare per riportare le cose a quel che erano “prima”.
Ironheart è una bella serie, ed è facile capirlo quando il telefilm stesso lascia a pochi minuti di durata le sue parti più action e CGI. La serie di Marvel Television impara dagli errori di molte produzioni del passato per portare sui nostri abbonamenti una piacevole miniserie in 6 episodi che rende omaggio alla città di Chicago e tralascia scazzottate CGI e minacce universali per parlare di famiglia e di affetti. Il comparto narrativo è comunque interessante, andando a parlare di magia e tecnologia con gli stessi toni, ma consapevole delle differenze. L’introduzione finale di un villain interessantissimo chiude la miniserie in modo coraggioso e con un degno cliffhanger.
Una bella serie, più affine a *Thunderbolts che a un tipico prodotto MCU
Pro
- Magia e tecnologia sono trattati insieme, per la prima volta
- Il cast è piacevole, senza strafare
- Dominique Thorne è a suo agio nel disagio del personaggio
Contro
- Il pilot non rende giustizia alla serie
- Alcuni dialoghi iniziali sembrano pigri
- La regia non è nulla di speciale, e non sembra sfruttare il potenziale dell'abilissima scenografia e fotografia