I Hate This Place Provato – Gamescom 2025
Ispirato all'omonima serie a fumetti di Kyle Starks e Artyom Topilin, I Hate This Place è un horror isometrico open world.
Se Broken Mirror Games non ti dice nulla, non temere: aperta nel 2024 come azienda sussidiaria di Bloober Team (Silent Hill 2 Remake, The Medium, Observer, Layers of Fear) dedicata al publishing, prende finalmente il microfono e annuncia il suo primo titolo pubblicato.
I Hate This Place, sviluppato da Rock Square Thunder, al suo secondo gioco, e pubblicato appunto da Broken Mirror, è un survival horror isometrico ispirato alla linea di fumetti omonima, tuttora recuperabile in 10 volumi.
Settato in un mondo corrotto all’inverosimile, la nostra alter ego Elena si ritrova suo malgrado a risvegliare forze la cui malvagità è inaudita e i cui piani sono insondabili e ovviamente violenti.
Con uno stile visivo che urla anni ’80 e uno stuolo di nemici – animali, umani e… non – pronti a farci la pelle, I Hate This Place sembra fondere identità estetica e sovrannaturale. La nostra missione? Risolvere delle infestazioni di spiriti, principalmente, ma queste non sono che le prime avvisaglie del male che pian piano sta prendendo possesso del mondo.
Dal trailer di gameplay qualcosa di positivo si era percepito, in particolare la comprensibile difficoltà delle fasi offensive e la fusione fra toni pop visivamente ma orrorifici a livello di tematiche, quindi non potevo non alzare con gioia la mano quando si è trattato di prendere appuntamento per un hands-on dedicato, durante questa Gamescom 2025.
Sì, quello che fino a due anni fa odiava gli horror ora si è offerto di andare a provarne uno: how the turn tables, eh?
I Hate This Place Provato – Gamescom 2025
Parto con il dire che I Hate This Place ci ha messo la bellezza di 16 secondi per farmi capire che ha sì dei toni horror, con mostri tentacolati rosso sangue che ti inseguono e un numero limitato di risorse da gestire per sopravvivere, ma non è un horror. Un action survival horror, piuttosto.
La componente visiva parla quella di molti shooter con telecamera isometrica, come The Descent (che però posiziona la telecamera molto molto indietro, quasi più attenta alla totalità della metropoli cyberpunk che alle tribolazioni di chi la vive), ma rimane molto vicina alla sua protagonista. Nella demo da me provata diversi elementi di UI non mi sono stati spiegati perché non essenziali al godimento della mezz’ora di gioco per la quale ero lì: uno di questi componenti è lo scorrere del tempo, in alto a destra, che diventa molto importante nell’esplorazione del mondo aperto.
A rendere le cose più semplici e lineari era proprio la location decisa per la demo: un complesso di ricerca abbandonato su diversi piani, formalmente un dungeon.
L’eslorazione dell’area è intuitiva, pur in assenza di una mappa consultabile, grazie al fatto che le nostre azioni permangono nel mondo di gioco, che quindi non si “resetta” ad uno status neutrale nel momento in cui, con una schermata di caricamento d’intermezzo, cambiamo “macrozona”. Ho potuto riconoscere una zona già visitata dalla totale assenza di risorse lasciate ma soprattutto perché potevo riconoscere quali porte, nel mio precedente peregrinare, avevo lasciato aperte e quali invece indicavano un pezzo di mappa ancora da esplorare.

Lo stile artistico, lo potrai vedere dal trailer o le immagini, è piuttosto essenziale ma senza sacrificare la qualità degli asset o la loro leggibilità come elementi di level design. L’utilizzo degli analogici è naturale per chi ha già bazzicato il genere dei dual stick shooter, e la gestione veloce dell’inventario è creata con un’attenzione alla UX più istintiva che davvero non aveva chance di eludere il mio giudizio e, maggiormente, i miei complimenti.
Se con i direzionali possiamo, a seconda dell’asse direzionale sul quale agiamo, switchare l’arma o alternare i consumabili (cure a sinistra, oggetti offensivi a destra), i tasti dedicati all’utilizzo di questi ultimi sono maggiormente confusionari: dopo la fatica con la prima molotov da tirare sono tornato a pistola silenziata e pompa a due colpi, conscio che la mia velocità nel mirare, colpire e ricaricare avrebbe in ogni scenario sovrastato l’eventuale potenza di output danno di una molotov.
Le componenti survival horror rimangono intatte quando si arriva a dover commisurare le proprie risorse rispetto a ciò che il crafting ci permette di costruire: fortunatamente nella demo ho potuto craftare quasi solo munizioni, mentre mi è stata meno chiara la risoluzione di un particolare enigma ambientale (un dannato generatore da attivare). Non parlo tanto di come esso sarebbe dovuto essere risolto, quanto piuttosto della ricerca dell’area che, schivata dal mio backtracking, potesse fare da ospite alla risoluzione. In parte la mia stanchezza ha contribuito alla necessità di aiuto, in parte, in questo caso sì, lo showfloor non è la situazione ideale per un gioco immersivo come I Hate This Place.
Lo shooting è buono e, complice l’utilizzo della torcia per illuminare le parti più buie del livello, ci sono pochissimi modi per non sparare esattamente dove si aveva intenzione di sparare: alcuni nemici sono carne da cannone, altri sono mini-boss messi sul nostro percorso per farci migliorare nelle nostre skill di sopravvivenza, ma ancora mancano veri e propri boss ad alta temibilità. Ho notato anche l’assenza di eventuali alberi skill o elementi sbloccabili che innalzassero i nostri parametri, ma non sono sicuro siano elementi da pretendere da una struttura ludica come quella di I Hate This Place.

L’equilibrio fra i toni è per me semi-perfetto, e le uniche vere micro-pecche sulle quali mi sono scontrato hanno a che fare con il level design un po’ concentrico e poco evolutivo – internamente al gioco, non nel mercato ad ampio spettro – e voice asset spesso usati in modo ripetitivo. Nel frattempo devo però complimentare Broken Mirror Games per una produzione così a fuoco: certo, partire da un fumetto definito aiuta, e non poco, ma un videogioco non è solo storia, e I Hate This Place insegna sicuramente la lezione al grande pubblico e, forse, ai critici più da mignolo alzato.