Back in Time – Binary Domain

Questa volta non è Ryu Ga Gotoku...

La prossima settimana uscirà Lost Judgment, secondo capitolo della serie spin-off di Yakuza, cui il Ryu ga Gotoku Studio del buon Toshihiro Nagoshi dedica il 90% (o forse 99) del suo tempo. Una decina d’anni fa, però, se ne uscì con Binary Domain, un gioco su misura per gli occidentali, magari in modo un po’ stereotipato: trattasi, infatti, di un TPS dritto per dritto, con cover system, multiplayer online, ambientazione futuristica ma non troppo e un protagonista a stelle e strisce (che mi ricorda un sacco Adam Sandler – N.d.R.).

Futuristico ma non troppo, abbiamo detto. Le vicende si svolgono nel 2080, quando (secondo Sega) la robotica sarà talmente avanzata da consentire la produzione di automi in tutto e per tutto uguali agli uomini. Di primo acchito sembra una figata, ma le implicazioni sono numerose e problematiche, tanto che la comunità internazionale si impegna a non produrre questi “Figli del Nulla”, queste macchine così spaventosamente umane che non sono coscienti di essere fatte di ferraglia sotto lo strato superficiale di pelle. La disposizione normativa di riferimento è la clausola 21 della nuova Convenzione di Ginevra, ma, a quanto pare, qualcuno in Giappone la sta violando…

Per questo motivo viene formata una squadra (Rust Crew) di soldati scelti, che hanno il compito di fare chiarezza sulla questione e di catturare il responsabile. Dan Marshall, detto “Il Sopravvissuto”, è uno di questi agenti segretissimi: proviene dal Nebraska, è piuttosto pompato e prova una certa idiosincrasia per le “Teste di Latta”. Gli altri membri del team sono di varia nazionalità e non si può dire che non siano caratterizzati, chi più chi meno ovviamente (io ho amato Cain – N.d.R.); in questo senso, il merito di Binary Domain non è tanto quello di aver tratteggiato personaggi unici e irripetibili, quanto quello di aver costruito un gruppo che “funziona”, in cui si intrecciano battute al vetriolo e contrasti di varia natura, ma anche solidarietà, rispetto e sentimenti. Da questo punto di vista, la scelta è stata quella di lasciare in mano al giocatore la cura dei rapporti fra i membri del gruppo, o meglio, fra Dan e gli altri: a seconda del vostro comportamento in battaglia – più o meno individualista – e delle risposte che date, otterrete un determinato livello di fiducia, che influenzerà significativamente il finale della storia. Quelli di Sega lo chiamano “sistema consequenziale”, per fare un po’ gli splendidi.

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La trama in sé è ben al di sopra della media di questo genere: non merita il Premio Pulitzer e ingrana la quinta solo nel capitolo conclusivo, ma è un ottimo incentivo per proseguire la Campagna e offre dei bei momenti. I colpi di scena sono azzeccati ma non esagerano, mentre le riflessioni proposte non sono originalissime (Asimov?), ma comunque interessanti e di una certa attualità in una società sempre più tecnologica, che assiste anche a una crisi dei valori nelle ultime decadi.

Anche il setting è un elemento assolutamente indispensabile per ottenere il coinvolgimento del giocatore, e il Nagoshi lo sa bene, vista la cura che è sempre stata riposta per realizzare gli scenari urbani dei vari Ryu Ga Gotoku, in cui Kamurocho è modellata fedelmente su Kabukicho. Anche con Binary Domain gli sviluppatori hanno deciso di “giocare in casa” ambientando il gioco a Tokyo, ma si tratta di una Tokyo ben diversa da quella (pur fittizia) che abbiamo imparato ad amare nei panni di Kazuma Kiryu, una città futuristica, talvolta meravigliosa, talvolta desolata e desolante: il surriscaldamento globale ha causato l’allagamento della metropoli, con conseguente ricostruzione a un livello superiore e accentuazione del divario fra ricchi e poveri, che abitano bassifondi dove non esiste la legge.

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Volendo valutare il comparto grafico di Binary Domain, potremmo dire che lo stile è un passo avanti rispetto alla tecnica: d’altronde, per il primo ci vuole gente brava e ispirata, mentre per la seconda ci vogliono tanti soldini. Cogliamo questa dicotomia se osserviamo prima il design dei vari boss e poi la resa non eccezionale di alcune texture o animazioni. Pure il frame rate non è miracoloso: solitamente sta a 30 fps, ma ci sono rari cali, che comunque non inficiano l’esperienza di gioco. Possiamo comunque dire che in linea di massima il risultato è superiore ai titoli precedenti del Nagoshi e ne eredita allo stesso tempo uno dei maggiori pregi, costituito dalle animazioni facciali, davvero molto buone e in grado di valorizzare gli intermezzi narrativi.

Per quanto riguarda il sonoro, invece, siamo un po’ sottotono: il doppiaggio è in Italiano e questo è un pregio, ma purtroppo non è sempre di alto livello. Da questo punto di vista, non si capisce perché Sega non abbia lasciato la possibilità di selezionare doppiaggio e sottotitoli di lingue diverse, magari Inglese e Italiano… Effetti sonori e musiche non passeranno certo alla storia: in particolare le seconde, forse trascurate per una scelta stilistica precisa, ma comunque non incisive nemmeno quando sono presenti.

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Il fulcro dell’esperienza è la Campagna, che si gioca rigorosamente in solitaria. Ciononostante, Binary Domain è un TPS a squadre: come abbiamo visto, Dan fa parte di una crew, assieme ad altri cinque membri fissi, in linea di massima. Per evitare situazioni di sovraffollamento e per rendere la gestione tattica un po’ meno complessa, di solito il party (prendiamo in prestito questo termine prevalentemente ruolistico) è composto da tre soldati in tutto, quindi Dan e altri due, il più delle volte selezionabili liberamente. Ovviamente, ciascun combattente ha delle caratteristiche peculiari, che sono abbastanza classiche e ovvie da non meritare ulteriori spiegazioni. Ogni personaggio può essere sviluppato, non solo nel suo rapporto di fiducia con Dan, ma anche potenziando la sua arma e acquistando delle nanomacchine che potenziano le prestazioni fisiche. Solite meccaniche RPG che ormai troviamo un po’ in qualunque genere. Queste operazioni di upgrade costano ovviamente: la “valuta” del gioco è costituita da crediti che si ottengono sterminando i nemici, arto per arto.

La gestione delle truppe in battaglia avviene attraverso semplici comandi da impartire mediante la pressione di L2 e uno dei tasti frontali, oppure utilizzando i comandi vocali. Bell’idea, direte voi; realizzazione così-così, diciamo noi: pur consentendo una messa appunto abbastanza scrupolosa dalla schermata delle opzioni, il riconoscimento non è proprio ottimo. Questo problema non è stato riscontrato solo dalla stampa italiana, ma anche da quella straniera, quindi probabilmente non è legato alla lingua di Dante in particolare.

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Poco male, tutto sommato: si può sempre usare il metodo convenzionale di cui sopra, e comunque i nostri alleati se la caveranno benone il più delle volte, rendendo decisamente meno tattici gli scontri. L’IA può dirsi buona tutto sommato, anche se può accadere che qualche genio si muova imprudentemente, inserendosi sulla vostra traiettoria: difficilmente gli procurerete grossi danni, però calerà un po’ il livello di fiducia. Il gioco, inoltre, non è così difficile da richiedere una grande pianificazione o abilità da Marcus Fenix per essere superato, almeno fino al livello di difficoltà “Soldato”: molte sezioni sono tranquillamente superabili con la pistola d’ordinanza, che ha il grande pregio di avere le munizioni illimitate. A proposito di arsenale, non si può dire che Binary Domain osi più di tanto sotto quest’aspetto: Dan può portarsi dietro la pistola, delle granate, il fucile d’assalto (la sua arma principale) e un’arma secondaria, che può essere un mitra come un lanciarazzi. Materiale piuttosto ordinario, tutto sommato, anche se a volte è possibile raccogliere qualche oggetto simpatico, come lo scudo antisommossa e il gatling, che però hanno il difetto di rallentare moltissimo i movimenti.

Strutturalmente, Binary Domain è un TPS con cover system piuttosto lineare, sulla scia di molti altri esponenti del genere. Nulla di eclatante, insomma, ma dannatamente divertente. Gli aspetti più interessanti probabilmente sono i giganteschi boss (quasi tutti bellissimi) e il cd. “sistema di danni procedurali”: come suggerisce il titolo del paragrafo, ci troveremo sempre a fronteggiare robot, i quali hanno il grosso pregio di non darsi per vinti ai primi proiettili, anzi, continueranno a combattere anche se privi degli arti. Puntando le varie parti del corpo, dunque, è possibile ottenere effetti diversi, come rallentare notevolmente gli spostamenti dell’avversario (sparando alle gambe) o addirittura rivolgerlo contro i suoi stessi compagni (sparando alla testa). Bello, ci piace molto: oltre a dare una certa soddisfazione, ha anche dei risvolti tattici. Se le mutilazioni robotiche non fossero sufficienti a intrattenere il giocatore per una decina scarsa di ore (ma alla fin fine lo sono, eccome), il team di Yakuza ha pensato bene di inserire sequenze di diverso tipo per spezzare un po’ la monotonia: non tutte sono realizzate a regola d’arte, ma complessivamente fanno il loro dovere.

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Purtroppo, però, in meno di dieci ore la Campagna finisce, come abbiamo anticipato. Cosa resta? Innanzitutto, ci sono almeno due incentivi a rigiocarla, cioè la raccolta di tutti i collectible (a cui sono collegati anche alcuni Trofei) e i finali multipli. Inoltre, la selezione in capitoli (e anche in singole sezioni) rende una pratica molto “leggera” il replay, consentendo al giocatore di selezionare le scene del gioco che più lo hanno galvanizzato, se proprio non ha voglia di rifarselo tutto.

Il multiplayer online avrebbe dovuto essere la ciliegina sulla torta, ma in realtà non era poi così interessante: il corredo di modalità è privo di fantasia e le mappe non sono molte, e nemmeno molto estese. Le modalità sono le solite competitive (team deathmatch, capture the flag, area control e così via) e una sfida che ricorda da vicino l’Orda di Gears of War. Sarebbe stato molto meglio prevedere opzioni co-op nell’ambito della Campagna, anzi, sarebbe stato meglio silurare l’intero comparto online a favore del single player, che così avrebbe beneficiato di una maggior cura, volta a limare le sue imperfezioni.

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Nonostante i difetti fin qui evidenziati, Binary Domain rimane un’esperienza di gioco assolutamente interessante Sicuramente un esperimento positivo per la squadra di Nagoshi, che aveva già palesato il suo interesse per le meccaniche shooter con Yakuza: Dead Souls (uscito in patria ben prima di Binary Domain).

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