Back in Time – The Mark of Kri

Facciamo conoscenza del cugino sfortunato di Kratos.

Prima che God of War spopolasse in tutto l’Occidente, Sony aveva già provato la strada dell’action truculento con The Mark of Kri, sviluppato dagli studi di San Diego. La ricetta è all’incirca la stessa utilizzata in seguito per God of War, tanto che può risultare sorprendente constatare come i destini dei due titoli siano stati del tutto opposti: abbiamo un gioco d’azione con tanta (ma tanta) violenza, un comparto tecnico curato, un’ispirazione da antiche culture e soprattutto, un massiccio protagonista in grado di macellare qualsiasi cosa gli si pari davanti. In un certo senso, Rau può essere considerato il predecessore sfortunato del Fantasma di Sparta: nonostante una buona accoglienza da parte della stampa specializzata e una discreta pubblicità, The Mark of Kri non ebbe i risultati del Blockbuster di Jaffe, tanto che il sequel, Rise of the Kasai, non arrivò neanche in Europa. Peccato, perché il titolo firmato San Diego mostrava spunti interessanti, che avrebbero potuto essere sviluppati in episodi successivi, se il progetto fosse rimasto di alto profilo.

Sedici anni fa il gioco debuttò in Europa, con quasi otto mesi di ritardo rispetto agli Stati Uniti. Riscopriamolo assieme.

Le vicende narrate in The Mark of Kri ruotano attorno all’incantesimo oscuro che dà il nome al gioco: esso fu diviso in sei parti, ma un negromante sta cercando di riunirle e il giovane Rau deve assolutamente impedirlo. Il possente barbaro ricorda da vicino i guerrieri Māori, grazie ai suoi tatuaggi, all’arsenale, comprensivo della tradizionale Taiaha, e allo stile di combattimento, forgiato sulle basi del Mau rākau; The Mark of Kri pesca a piene mani dall’immaginario di tale cultura, creando pure una mitologia, abbastanza ridotta ma funzionale a dare un minimo di lore, da ricostruire esplorando attentamente i livelli.

Lo stile grafico, invece, è accostabile a quello delle coeve produzioni Disney: non è un caso che ci abbia lavorato gente proveniente dagli studi di Don Bluth, tra gli altri. La differenza sostanziale fra The Mark of Kri e un Mulan a caso sta tutta nella violenza efferata del gioco Sony, che ci porta dalle parti di Conan il Barbaro: d’altronde, le gesta di Rau potrebbero tranquillamente collocarsi in una regione sperduta della mitica età Hyboriana. Il sonoro, ovviamente contribuisce, grazie a musiche tribali, urli di battaglia e quant’altro. Da segnalare il doppiaggio italiano di buona qualità, e piuttosto enfatico. Il maggior pregio a livello tecnico è costituito dalle innumerevoli animazioni necessarie a sorreggere il battle system e dall’elevato numero di nemici visualizzati contemporaneamente. Qual è il prezzo di tanta beltà? Tutto sommato, si tratta soltanto di pazientare qualche istante per i caricamenti e sopportare sporadici rallentamenti nelle situazioni più concitate o negli scenari più ampi.

Il nostro muscolosissimo eroe non è solo nella sua impresa, visto che potrà contare sull’aiuto del suo spirito guida, il corvo Kuzo. I due personaggi, in una certa misura, rappresentano la doppia anima del gameplay di The Mark of Kri, quella Hack and Slash e quella stealth, anche se alla fin fine l’unico che agisce effettivamente è (quasi) sempre Rau. Il possente guerriero è un incredibile strumento di morte, in grado di fronteggiare una decina di avversari in campo aperto, ma anche di ucciderli furtivamente, uno dopo l’altro. Certo è che questo modo “ragionato” di procedere – che in alcuni casi è quasi obbligatorio – sarebbe impossibile senza avere una visione d’insieme della sezione del livello da superare, e, siccome nell’indefinita età antica in cui il gioco è ambientato non esistono radar e telecamere, dovrà essere Kuzo a fornire importanti informazioni sulla routine e la collocazione delle sentinelle: con la semplice pressione di un tasto, è possibile spedire il corvo su appositi appigli (evidenziati da una luce colorata), dai quali potrà scrutare il paesaggio circostante, che il giocatore vedrà in prima persona. Oltre a questa funzione principale, esistono leve che solo Kuzo è in grado di raggiungere. Per questo motivo si può dire che la parte stealth/esplorativa è perlopiù imputata al corvo: Rau è solo l’esecutore materiale degli omicidi silenziosi, che spaziano dal classico attacco alle spalle al preciso cecchinaggio praticato con l’arco.

Nelle fasi melee il palcoscenico è tutto per il possente eroe tatuato. Il battle system messo a punto dai ragazzi di San Diego concettualmente si sposa alla perfezione con le mischie che caratterizzano il gioco. Il tocco di originalità è dato dalla possibilità di “lockare” contemporaneamente più di un nemico (da tre a nove, dipende dall’arma), assegnando a ciascuno di essi (oppure a ciascun gruppetto se i nemici sono più di tre) un tasto frontale fra X, Quadrato e Cerchio. L’operazione di lock-on avviene controllando l’analogico destro, mentre per colpire gli avversari è necessario premere il pulsante corrispondente: di conseguenza è possibile spostarsi in scioltezza – grazie alle ottime animazioni – da un bersaglio all’altro, a seconda delle circostanze, producendosi in (spesso) involontarie coreografie sanguinolente. Sulla carta il sistema è allettante, grazie a funzionalità e originalità allo stesso tempo, però è anche doveroso constatare alla prova dei fatti che il tutto manca un po’ di agilità e che situazioni troppo concitate possono portare il giocatore a pigiare tasti a caso. Non giova, poi, la scarsa I.A. dei nemici, che a volte si bloccano di fronte ad elementi dello scenario o che attendono passivamente di essere colpiti.

Un bilancio definitivo sul gameplay è sicuramente positivo, in quanto entrambe le sue componenti principali risultano divertenti; inoltre, ci sono alcune scelte peculiari che non abbiamo ancora avuto modo di esaminare. Iniziamo dai livelli: essi sono sei, ma sono decisamente lunghi, tanto che per completare l’avventura impiegherete tra le sette e le nove ore, il che significa che la durata media di ciascuno schema è superiore all’ora. Non ci sono checkpoint fissi, ma è consentito salvare in ogni momento, al costo di una pergamena (nei livelli ce ne sono in buon numero, ma è possibile portarsene dietro solo quattro). Questa scelta risulta vincente, in quanto si adatta ai ritmi di gioco di ciascuno, permettendo anche sessioni abbastanza brevi, dal momento che non è così scontato che tutti abbiano un paio d’ore consecutive a disposizione; inoltre, consente di salvare proprio in prossimità delle situazioni critiche, in modo da non dover perdere troppo tempo ad ogni game over.

E se ne vedono parecchi, di game over, a causa di una difficoltà piuttosto elevata e di un approccio che strizza l’occhio al “trial and error”: per fare un esempio, vi capiterà spesso di morire sotto i colpi di arcieri che ad una prima occhiata non avevate avvistato, ma al secondo (o terzo, o quarto…) tentativo ne conoscerete già l’ubicazione. Chiaramente è più facile imparare dai propri errori nelle fasi stealth che nelle battaglie, ma è anche vero che nella maggior parte dei casi esse possono essere evitate; spesso, anzi, sarà molto più conveniente, dal momento che possono arrivare ingenti rinforzi in caso di combattimento frontale. Fa eccezione l’ultimo livello – che è anche il meno riuscito, probabilmente aggiunto per allungare un po’ il brodo – il quale è composto da una serie infinita di stanze piene zeppe di non-morti da affettare.

L’unico neo nella formula è costituito da una sensazione vagamente fastidiosa di procedere in modo “guidato”: in quasi tutte le situazioni che vi si parano davanti, risulterà evidente la miglior strategia da utilizzare e, soprattutto, eventuali approcci alternativi risulteranno molto sconvenienti.

The Mark of Kri


The Mark of Kri è indubbiamente un buon gioco, in cui si alternano fasi di grande entusiasmo ad altre un po’ più fiacche, o addirittura sfiancanti, come l’ultimo livello. Tra i first party di Sony è stato senz’altro uno dei più sfortunati, senza avere peraltro alcun demerito particolare.

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