Assassin’s Creed IV: Black Flag

Per giudicare in maniera corretta Assassin’s Creed IV Black Flag è necessario abbandonare quegli scenari a cui siamo stati abituati nei quattro capitoli precedenti. A dire il vero, già a partire da Revelations le cose stavano cambiando, ma buona parte di quell’immaginario collettivo che tanto ha fatto sognare i primissimi fan lo faceva Ezio Auditore. D’altronde ci sono state anche scelte forzate; da quando l’appuntamento con un nuovo capitolo è diventato annuale, anche alcune decisioni sulla sopravvivenza della saga sono state per lo più scelte forzate.

Pertanto, stiamo assistendo gradualmente ad uno spostamento della centralità di quello che era il tema principale – ovvero la scoperta della verità sul potere degli assassini e della prima civiltà – per abbracciare quello del raggiungimento della piena sincronizzazione dei ricordi degli antenati da parte dell’Abstergo per fini personali; in questo modo gli sviluppatori potranno assicurarsi una longevità che non solo perdurerà nel brand stesso, ma nella trasversalità dei periodi più importanti della storia mondiale, adattando non più lo scenario che consegue al personaggio, ma viceversa. Forse è anche per questo che tutti i protagonisti successivi peccano un po’ di personalità, oppure è solo colpa di Ezio, uno dei migliori personaggi della storia dei videogames. Non a caso, comunque, si parla già di Egitto, età Vittoriana o Giappone per il prossimo capitolo. Il cambio della nuova struttura ha preso le sue forme, e per i fan è diventato oramai un rito fare congetture sui prossimi capitoli.
Questa è la storia di un titolo che, nato nel 2007, vuole assicurarsi una lunga vita nel mondo dei videogames.

Trama – E’ così semplice diventare assassini?

Con Black Flag si fa un salto temporale all’indietro rispetto ad AC III. Ci troviamo difatti nel 1715 – cinquant’anni prima dalla vicenda di Connor – assieme ad un pirata dei Caraibi di nome Edward Kenway, nonché padre di Haytham Kenway e nonno di Connor.
Ci troviamo a Capo Bonavista, nel mezzo di una tempesta. Il pirata Edward prende il comando del timone della nave dopo la morte in combattimento del timoniere ufficiale. Improvvisamente una figura a noi conosciuta, incappucciata, fa scattare dai polsi la lama celata per assassinare il primo, il secondo, e il terzo pirata, sino a giungere a noi. Ma non appena il peggio sembra arrivare, la nave prende fuoco e si frantuma. Salvi per un pelo, nuotiamo sino ad un isolotto vicino, e là incontriamo disteso a terra l’assassino che poco prima voleva avventarsi su Edward, Duncan Walpole, il quale si risveglia giusto in tempo per scappare e cominciare un inseguimento che vede la fine nell’uccisione di quest’ultimo per mano di Edward.

Edward, da buon corsaro, non sa nemmeno a quale destino sta andando incontro quel giorno in cui ruba gli abiti da assassino. Sembra poco credibile, ma da quel momento in poi Edward Kenway, indossati gli abiti di Duncan Walpole, diventa un assassino a tutti gli effetti. Il tempo di ricevere una mezz’oretta dopo le lame celate e il suo destino è presto segnato. Ma i duri allenamenti e un rito di iniziazione per diventare assassino? Dove sono finiti? “Se nasci rotondo, non puoi morire quadrato”, ed evidentemente non è questo il caso, poiché Edward nelle sue vesti si trova fin troppo a suo agio: uno dei passaggi fondamentali per tutti i capitoli viene ridotto così all’osso in quest’ultimo. Senza spiegazioni.
Forse la sfida più grande è stata quella di conciliare due ruoli così differenti come assassino e pirata; un processo tanto delicato quanto fondamentale per l’esistenza del capitolo stesso.

La quiete dopo la tempesta

L’abilità della Ubisoft è sempre stata quella di trasporre fedelmente scenari in cui il giocatore medio riesce a trovare la corrispondenza nel suo immaginario. In realtà non è un lavoro da poco: bisogna coordinare una serie di macroelementi che vanno poi a costruire l’ambiente grafico entro il quale il nostro protagonista andrà ad interagire con vari oggetti ed eventi. E’ il punto di forza di Assassin’s Creed, e in particolare di questo capitolo, che, come molti già sapranno, è incentrato sul Mar dei Caraibi, sui saccheggi di navi e brigantini, sull’esplorazione di piccoli isolotti sperduti in mezzo al mare, di taverne degne della miglior Tortuga e colonne sonore in stile piratesco davvero maestose. Edward Kenway sarà impegnato costantemente a solcare con la Jackdaw – la sua nave – uno spazio di grandezze immense, pieno di eventi, luoghi da scoprire, ma uniti da un unico filo conduttore costituito dalla trama centrale. Di per sé, difatti, gli eventi e le missioni secondarie a cui prenderemo parte non si allontaneranno mai totalmente dalla storia madre, come invece è successo in quella del capitolo precedente, che dava l’impressione di aver perso la retta via con quel calderone di missioni in cui vi era un po’ di tutto.

Con Edward vi è una sorta di quiete dopo la tempesta, una riappacificazione con le missioni secondarie (diventate oramai fondamentali quasi quanto le primarie) e uno svecchiamento di quelle strutture che ai più davano noia di essere completate. Non a caso, da ora sarà possibile dare una valutazione da 1 a 5 stelle per ogni missione completata. Ed è ben visibile lo sforzo da parte del team di sviluppo di eliminare gradualmente tutti quegli elementi che contribuivano negativamente ai fini dell’esperienza videoludica: meno tipologie di missioni, ma più varietà fra di loro, e pare segua lo stesso canovaccio anche i passatempo “side story”. Se nel capitolo precedente dovevamo spendere molte ore per cacciare, personalizzare la nostra nave, la tenuta e le strutture ad essa afferenti, in AC IV si è deciso di lasciare sullo sfondo (senza abbandonarle del tutto) meccaniche come il sistema di caccia e di personalizzazione del protagonista per dar maggiore importanza ai potenziamenti della Jackdaw e al reclutamento della ciurma, che sostituisce in tutto e per tutto la gilda di assassini cui eravamo abituati precedentemente. E forse questo stona un po’ con il clima tipico della saga.

Un passo indietro nella grafica?

Per i veterani è pressoché automatico fare un confronto tra Revelations e Black Flag (volendo anche AC III). Se non fosse per la data d’uscita, dal punto di vista grafico sembra proprio che il primo sia fatto di un’altra pasta rispetto agli ultimi due, quasi più recente. Un’inspiegabile inversione di marcia giustificabile parzialmente dal fatto che con Edward Kenway si aggiungono ettari di terra, milioni di metri cubi d’acqua, tratti di una vegetazione più folta, colori più vivi – risaltati dalla forte luce di un sole a volte abbagliante – rispetto al capitolo precedente e una cura dei particolari così precisa da dare l’impressione che il motore grafico sia fin troppo appesantito e non regga i perfezionismi. Dall’impressione al caso, perché non saranno rari i momenti in cui durante una corsa acrobatica o un assalto in mischia su una nave si riscontreranno fastidiosi rallentamenti visibili ad occhio nudo.

La situazione non diventa più giustificabile quando bug di questa portata cominciano a spuntare qua e là durante l’esperienza di gioco: non è l’unico, e per un titolo che ha all’attivo ben sei capitoli su console, per un totale di sei anni di progettazioni, comincia a diventare più un errore sistematico che una svista o errore di programmazione. Ad aggravare il tutto si aggiunge la famosissima intelligenza artificiale, un marchio di fabbrica targato Assassin’s Creed che non si smentisce nemmeno in questo capitolo. C’è però da dire che qualche minuscolo passo è stato mosso, così piccolo che lungi dal trovare la perfezione in un fallace sistema di combattimento, hanno semplicemente reso la vita un po’ più difficile a chi si divertiva ad attaccare in maniera sistematica i nemici senza contrattaccare, ripararsi o addirittura, in alcuni casi, scappare: le combo uccisioni vi verranno facilmente interrotte, le ferite si faranno sentire e il rischio di cadere in battaglia è più alto rispetto ai titoli precedenti.
Ma da quando il Cerusico è andato in pensione è sempre tutto troppo facile.

Tempi bui per il multiplayer

Il comparto multiplayer da sempre è stato uno dei migliori sistemi MMO in circolazione. Prende completamente le distanze dai classici sparatutto e un livello 1 ha la stessa possibilità di vittoria di un lv.50, questo perché oltre all’esperienza, la cura delle mappe, con i suoi nascondigli e punti morti, era parte della strategia del videogiocatore. Un’irripetibile Venezia con le sue alte torri, in grado di sviluppare una varietà sorprendente di sviluppo di strategie di gioco, è stata sostituita prima dalla dispersiva e larga Costantinopoli per poi passare il testimone ad una confusionaria ed innevata frontiera americana e lasciare definitivamente l’onere del continuum ad una Nassau sì ben curata, ma che dà poco spazio alla fantasia d’uso da parte dei videogiocatori. In sostanza, il gameplay rimane invariato nella sua familiare struttura, ma va da sé che mappe come Venezia non se ne vedranno più, né tantomeno i personaggi da usare riusciranno più ad assumere una così forte carica carismatica come quella, ad esempio, del Masnadiero o del Barbiere.
Anche questa è la conseguenza di una scelta forzata.

In definitiva

Quel che è giusto è giusto, e stavolta va riconosciuto un merito al team Ubisoft, ovvero quello di essere stato in grado di dare nuova linfa vitale ad una saga fortemente attaccata al passato nonostante il consueto appuntamento annuale di un nuovo capitolo. Più del suo predecessore, in Assassin’s Creed Black Flag si percepisce un accurato lavoro di progettazione ancor prima di metter mano ai tecnicismi; una storia che inizialmente lascia perplessi per determinate scelte – alcune di esse hanno stravolto un po’ la concezione del “credo” – ma a lungo andare, quando oramai ci si disincanta dalla magia della lontana Firenze, stupisce per la trama e l’intreccio con i capitoli antecedenti. E’ quel dolce risveglio che tanto attendevamo con Connor, invano.

Ecco. Il punto di forza di Assassin’s Creed Black Flag è proprio il tentativo di mescolare alcuni elementi di novità senza abbandonare completamente il passato, cosa che nel capitolo precedente si traduceva con una completa cesura. Ma a far la differenza in quest’ultimo capitolo è l’affascinante free-roaming a bordo della Jackdaw da vero pirata dei caraibi. Deludente però è il motore grafico, che a stento riesce a reggere il delicato compito di quest’ultimo capitolo: traghettare la trama globale della saga verso un graduale stravolgimento delle intenzioni.
Non ci resta che attendere soltanto un motore grafico che possa davvero essere all’altezza di tutto ciò.

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