Danganronpa: Trigger Happy Havoc – Danganronpa: Trigger Happy Havoc

Il genere delle graphic novel non è molto diffuso in Europa e sul mercato occidentale: per quanto dal lato fumetto sia l’America a farla da padrone, è nel videogioco che il Giappone si esalta. Se volessimo accomunare tale genere a qualcosa di nostro allora dovremmo fare riferimento esclusivamente alle avventure punta e clicca, per quanto la variante nipponica punti molto di più sui dialoghi e sui momenti parlati, facendone la componente principale. Danganronpa rientra esattamente nel genere della graphic novel con un’importante forza proprio nell’aspetto narrativo che punta sul social game, così come gli stessi Persona – della saga Shin Megami Tensei – hanno insegnato. 

Il titolo in questione risale al 2010, quando venne rilasciato su PSP in Giappone: con quattro anni di ritardo è il suo momento su Ps Vita con il sottotitolo di Trigger Happy Havoc. Realizzato dalla Spike Chunsoft è un tentativo più che curioso di lanciare il genere graphic novel videoludica anche in occidente, con tra l’altro un sequel già annunciato e pronto a sbarcare sul mercato orientale.

Mors tua, vita mea

Alla Hope’s Peak Academy accedono esclusivamente gli Ultima te Students, ragazzi talentuosi in qualche specifica capacità pronti a varcare la soglia di quella che è la scuola d’elite più elitaria che esista al mondo. Tra questi c’è anche Makoto Naegi, uno studente pregno di ottimismo presentato come l’Ultimate Lucky Studente, ovvero l’allievo più fortunato di tutti. Una qualità che, insomma, lascia un po’ sorpresi, ma è pur sempre una qualità, servitagli soprattutto per essere sorteggiato ed essere ammesso all’istituto. Al suo arrivo alla Hope’s Peak Academy, però, Makoto perde conoscenza e si ritrova, qualche ora dopo, in un’aula scolastica completamente vuota: guadagnando l’uscita trova altri quattordici ragazzi, tutti Ultimate Students, arrivati lì nello stesso modo del Nostro, svenendo e risvegliandosi in un’aula. Ben presto riceveranno la visita di Monokuma, un pupazzo con fattezze da orso diviso a metà, come lo Yin e lo Yang, da un lato puccioso e dall’altro malefico. I quindici ragazzi stanno vivendo in prigionia e l’unico modo per evadere dalla Hope’s Peak Academy è uccidere un compagno a caso, a patto di non farsi scoprire, altrimenti si verrà giustiziati. La soluzione meno dura, invece, è quella di attendere la fine dei propri giorni all’interno dell’istituto scolastico. 

La trama sicuramente offre uno spunto interessante e qualche elemento non indifferente che ci permette di gridare all’innovazione. C’è però una grande difficoltà – non nuova alle produzioni nipponiche – nel presentare e nello spiegare le vicende: i dialoghi sono decisamente prolissi, spesso inutili e superflui, con spiegazioni che si ritrovano a osservare l’ovvio e a cercare necessariamente una continua sorpresa che però non arriva mai, perché fin troppo prevedibile. Inoltre ogni capitolo della storia avrebbe potuto avere un non indifferente cliffhanger per spingerci a iniziare subito dopo quello successivo, ma lo scenario non ci presenta tale soluzione, rimandando il tutto a un proseguire per inerzia verso il finale e verso la risoluzione del mistero. 

Investigatore moderno

L’obiettivo, insomma, è quello di investigare. L’intera avventura ludica si sviluppa all’interno di un istituto da visitare liberamente, fino alle prime battute e al primo twist narrativo. Ci muoveremo con l’analogico sinistro e con l’analogico destro avremo modo di selezionare l’elemento da ispezionare: per sapere quali sono i punti focali sui quali concentrare la nostra attenzione basterà premere il tasto triangolo e verrà in nostro aiuto una schermata di supporto a mo’ di cerchi: in viola per i dialoghi e in blu per le azioni quotidiane. Col tasto quadrato chiameremo a noi una sorta di zainetto contenente tutti i dati necessari al nostro progredire, tra cui anche il libro delle regole della scuola – inutile ai fini del nostro gameplay, perché tutto automatizzato – e con il tasto cerchio usciremo da ogni stanza all’interno della quale ci troviamo. Durante i dialoghi – che sono tantissimi e prendono la maggior parte del gioco – alcune parole verranno colorate per risaltare agli occhi: in colore oro troveremo gli highlights del discorso, mentre il colore viola ci spingerà a premere il tasto triangolo e avere delle reazioni a seconda di quanto ci è stato detto. Quest’ultima scelta rende ancora più lunghi i dialoghi, perché a ogni reazione corrisponde una diramazione del discorso, come una storia a bivi, ma una volta terminato un bivio saremo costretti a percorrere anche l’altro, riascoltando la prima parte di dialogo e cambiando soltanto la seconda.

La giocabilità di Danganronpa presenta decisamente vari limiti. Presentandosi come un punta e clicca versione giapponese, quindi più prendendo in pieno le intenzioni di una graphic novel, l’esperienza ludica si sviluppa attraverso un’investigazione continua sui propri compagni di avventura o sull’istituto stesso, alla ricerca di un qualche modo per evadere dalla struttura. Spesso, però, la soluzione al problema sarà sotto i nostri occhi, ma impossibile da raggiungere perché ci saremo trovati a saltare qualche passo saliente, allo stesso modo il gioco non progredisce se non parliamo con tutti i personaggi, costringendoci a sessioni di dialoghi infinite e spesso noiose. Insomma eventi scriptati in ogni singolo pixel degli ambienti da investigare che rendono non solo pedissequante l’esperienza, ma ci spingono anche a spegnere la console anzitempo. 

Quel che invece merita una più attenta digressione è la class trial. Trattasi di una sessione di gameplay durante la quale saremo chiamati a mettere in pratica i nostri indizi, raccolti nel corso dell’investigazione. Presentati sottoforma di proiettili – che potrete trovare annoverati nel vostro Handbook – chiamati per l’appunto Truth Bullets, le vostre verità, le evidenze rilevate, dovranno essere sparate verso i vostri obiettivi così da smascherare i colpevoli. L’interazione qui riesce ad aumentare e a conquistare più spazio, permettendovi anche di districarvi tra diversi mini giochi: tra questi la necessità di ricostruire delle sequenze per spiegare l’omicidio, oltre un bullet time, con il quale dovrete premere i tasti nel momento giusto per rispedire al mittente le affermazioni di difesa. Sicuramente il primo minigioco risulterà più interessante degli altri, che comunque sono molto semplici e banali. Le parole contro le quali dovervi accanire saranno colorate di arancione e l’unica difficoltà sarà quella di capire quale, precisamente, dovrà essere colpita. In caso di errore perdere punti vita e a quando non ne avrete più sarete indicati come l’assassino. Non temete, però, perché avrete la possibilità di riprovarci immediatamente dopo, senza ripartire dal vostro ultimo salvataggio o altro. Insomma, difficili, ma fino a un certo punto.

Vita Restyling 

L’aspetto grafico è completamente figlio del prodotto PSP, uscito in Giappone nel 2010 e soltanto oggi riadattato per Ps Vita per il nostro mercato. Tutti i personaggi con i quali discutiamo sono delle semplici sagome posizionate su un motore 3D di buona fattura e stessa cosa dicasi per quanto riguarda gli ambienti, che cadranno dal cielo a ogni ingresso in una determinata stanza. Il tratto è pulito, gli artwork degni di nota, ma si segnala anche una sorta di censura in alcuni tratti, nonostante l’intenzione cruenta dell’intera esperienza. 

Dal punto di vista del sonoro invece denotiamo una non piacevole scelta della colonna sonora: per quanto sia ispirata, spesso capiterà che diventi monotona, soprattutto se passerete troppo tempo a investigare e quindi diluirete l’azione. La musica non vi segue e inizierà a ripetersi in loop, dandovi anche un senso di scarsa varietà, che potrebbe dar fastidio durante i lunghi dialoghi. Il doppiaggio, invece, che può essere sia in inglese che in giapponese, si attesta su un buon livello narrativo e dalla buona capacità di coinvolgimento. Piccolo dettaglio per quanto riguarda la localizzazione: Danganronpa è completamente in inglese, senza alcuna parvenza di italiano. Siamo sicuri che nel 2014 questo non sia un problema per nessuno, ma per dovere di cronaca segnaliamo quest’aspetto.

Per accaniti nipponici

Danganronpa contrasta nettamente l’esperienza regalata con l’omonimo anime, poco apprezzato e mal riuscito in patria: il videogioco, invece, offre un’esperienza diversa e più completa. Nonostante gli eccessivi dialoghi, che potrebbero essere anche apprezzati se fossero leggermente più ragionati e più ispirati, l’avventura procede comunque in maniera interessata per trovare il bandolo della matassa e scappare dall’istituto nel quale si è prigionieri. La giocabilità è indubbiamente ridotta all’osso e i limiti denotati nel procedere dell’avventura contribuiranno ad aumentare il livello di noia e di frustrazione, ma tutto sommato se siete dei fan del genere – e se apprezzate le lunghe sessioni di dialogo degne degli sceneggiatori giapponesi – questo è il titolo che fa per voi. Se però questo è il tentativo migliore del mercato orientale per convincere gli occidentali a cedere alla graphic novel videoludica, c’è ancora da lavorare.

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