Saint Seiya: Sanctuary Battle – Recensione I Cavalieri dello Zodiaco: La Battaglia del Santuario
“Hai mai sentito il cosmo, dentro di te?”
I cavalieri dello zodiaco: la battaglia del santuario è un gioco che ripercorre, una volta ancora, la vicenda delle 12 case vista nella prima serie. Insomma, “bene” è una parola che a questo punto viene involontariamente da dire, senza nemmeno troppi sensi di colpa verso il resto della saga. Camminare, e più ancora, salire la strada verso il santuario per i Cavalieri ha significato un tempo nell’animazione e significa tutt’oggi nei videogame trasformare l’affanno in speranza, mescolando tragedia, sacralità e virtù che tanto hanno caratterizzato l’opera, pur con le sue incongruenze e incertezze narrative. Delle incertezze che, però, mai intaccavano uno stile formidabile: Saint Seiya è da sempre stata un’epopea venditrice di spettacolo.
Ma questa spettacolarizzazione, nel lavoro compiuto da Namco-Bandai, è messa seriamente a dura prova (di rara crudeltà, permettetemelo). Ci fu un tempo in cui i tie-in erano la sottoproduzione dell’intera industria, prodotti indiscutibilmente indecenti venduti a un gruppo di acquirenti che piuttosto che un gioco si stavano portando a casa un moderno, rilucente e quanto mai inutile sottobicchiere. Era un po’ come quando si poteva ancora fare paura raccontando fatti che si sapeva erano inventati: si era dei bambini, analfabeti videoludici bramosi di rivedere una volta ancora gli eroi dei cartoni animati su schermo. Ora no. Ai giorni nostri, insensibilmente e coscientemente, applichiamo tale ragionamento all’inverso. Non solo la stessa Namco-Bandai con Naruto e Dragon Ball, ma soprattutto e sopra tutti Rocksteady e la magnificenza del suo Batman: Arkham Asylum e il suo diretto seguito hanno mostrato che non c’è più spazio per quel tipo di realtà commerciale: ora si fa davvero sul serio. Dispiace allora constatare come, a conti fatti, questo La battaglia del santuario sia a cavallo tra la vecchia impostazione e la nuova scuola di pensiero. Troppo curato, infatti, per essere declassato come pattume digitale di vecchia concezione, non lo è tuttavia abbastanza per essere considerato un titolo riuscito sotto tutti gli aspetti. Perché?
Evidentemente la grafica. Ciò che le immagini nella loro immobilità non dichiarano, subdolamente, è che il motore grafico è in realtà più o meno lo stesso visto su PS2. Certo, era più che buono, un tempo. Ma presentare, oggi, scenari così dannatamente incompiuti lustrati da qualche effetto di luce nemmeno troppo ispirato e popolato da personaggi vecchi di una generazione non è, quantomeno, rispettoso. Così, come in una delle qualsiasi “HD Collection” tanto in voga su PS3, le texture e il conteggio poligonale relativo ai modelli sono (solamente) incrementati, le animazioni (solamente) rifinite: una sensazione che sarà tanto più forte se avete avuto modo di provare i precedenti capitoli, contando che per di più parte della colonna sonora, quasi tutta proveniente dall’ottima colonna sonora originale, è riciclata negli stessi, identici, modi (il menù, scialbo come davvero di rado si può vedere, ne è un esempio più che evidente).
Ma se la grafica, nel senso tecnico del termine, non convince pienamente ma riesce comunque a offrire una buona rappresentazione a schermo dell’opera nel suo complesso, il character design dei personaggi lascia un certo amaro in bocca. Sì, perché Saint Seiya è una serie che si fregia della mano di Shingo Araki, colosso dietro ad alcune delle migliori produzioni dell’animazione giapponese del passato. In parte deludente, quindi, ravvisare dei modelli poligonali di questa generazione di console, indubbiamente performante e capace, privi di tutta quella sontuosità che ha da offrire il lavoro di un artista eccezionale, in questo modo ingiustamente umiliato proprio a ridosso della sua scomparsa: tutti i personaggi del gioco sembrano più scimmiottare i recenti Myth Cloth, sembrando delle mere action figure in movimento tanto complete nella forma quanto inespressive maquette senza esistenza. È soprattutto nelle sequenze che se ne percepisce la pura finzione, ulteriormente enfatizzata dalla poca cura riposta nella riproduzione degli attacchi speciali all’interno dei combattimenti: tutti, tutti inscenati in un anonimo sfondo blu indipendentemente da dove e a chi si stia sferrando l’attacco. Mescolando al tutto un’inspiegabile telecamera fissa durante gli scontri all’aperto e un layout dei menù di gioco pressoché amatoriale, più che essere quell’attesa prova d’amore definitiva verso l’opera d’appartenenza, il lavoro di Dimps si può considerare più come un’improvvisa scappatella bucolica. E ancora un insieme di modalità di gioco che non sono nient’altro che, tutte, la riproposizione della stessa, identica, ripetitiva azione di gioco. O meglio, delle uniche due: uccidi tutti gli improbabili sgherri inviati dal santuario, inutili ostacoli da scaraventare in aria con tutta facilità, e sconfiggi l’avversario principale, confronti diretti dove il sistema di controllo dà, infine, le sue meritate soddisfazioni.