Tchia – Recensione

Recensito su PlayStation 5

Sapevate che le lingue regionali della Nuova Caledonia sono tante al punto da essere divise in quattro gruppi e che i suoi abitanti sono chiamati canachi? Personalmente lo ignoravo, ma Tchia ha svegliato la mia curiosità di conoscere qualcosa su questo agglomerato di isole oceaniche. Immersa nella culla del Mar Mediterraneo e più precisamente in Italia, non ho la percezione di una terra così distante, così il videogioco rappresenta per me un veicolo ideale di stimoli.

Nonostante la colonizzazione da parte della Francia, i canachi mantengono un certo orgoglio per le loro origini, mentre la loro terra vive un variopinto miscuglio di culture, tra quella europea e quella autoctona. È un alternarsi di tradizioni tribali, di grattacieli, di pesca e burocrazia, di persone caucasiche e piatti locali che lascia spiazzati chi scopre la Nuova Caledonia solo grazie alla visione dello studio indipendente Awaceb, pronto a raccontarmi le sue origini attraverso il suo gioco per PlayStation 4, PlayStation 5 (la versione qui in esame) e PC.

Tchia gameplay

Terra della parola, terra della condivisione

Come recita il motto nazionale che fa da titolo a questo paragrafo, l’obiettivo del team canadese (esplicitato in apertura del gioco) consiste nella diffusione di una cultura mediamente poco nota e ancor meno rappresentata dai media d’intrattenimento. A riprova di ciò, la scelta del solo doppiaggio in drehu (una delle tante lingue indigene) che, a braccetto con un’ottima localizzazione in italiano, mi ha permesso di apprezzare ora una fonetica oltremodo lontana da una neo romanza, ora dei cori e delle musiche tradizionali che forse non sarebbero mai arrivati alle mie orecchie; a quest’attività facoltativa è possibile partecipare con un ukulele, delle nacchere o delle foglie di felce secche in modo del tutto opzionale.

Un po’ ricordando il Decameron di Giovanni Boccaccio, Tchia è la protagonista di una storia dai tratti mitici e fantastici, il cui ricordo è affidato a una narratrice anziana verso un gruppo di ragazzi. Spostando dopo pochi istanti la concentrazione dalla cornice al racconto, la Nostra sta vivendo attimi di spensieratezza con suo padre, mentre a me giocatrice spetta il compito d’imparare le basi del Gameplay. Senonché questo ultimo viene improvvisamente rapito da Pwi Dua, spezzando la magia familiare e insieme legata alla natura che si stava instaurando anche tra giocatore e personaggi. Mossa da una forte determinazione, la bambina percepirà in questo contesto un potere particolare in sé, mentre si mette in viaggio alla ricerca del suo genitore, tra le placide acque dell’oceano.

Da questo momento i toni cambiano drasticamente – con un modo scenico d’ispirazione Disney/Pixar – facendosi specchio delle emozioni di Tchia, o almeno di quelle presunte, essendo la sua caratterizzazione piuttosto superficiale. Non l’ho percepito come un difetto immane, nella misura in cui la produzione viaggia più su un dramma corale e proprio per questo a incrinare il tutto è invero un mancato equilibrio e ritmo funzionale tra le parti, ovvero fra le trame secondarie, quella principale e il loro inserimento in un contesto Open World.

Tchia

Open world a ogni costo?

L’ultima fatica di Awaceb si propone infatti con un open world di stampo Sandbox, ma sin dai primi istanti si percepisce una certa pesantezza nella messa a fuoco dell’incedere narrativo: passino le schermate nere a spezzare l’immedesimazione e il ritmo, ma il binario principale della trama è composto da missioni e missioni prive di mordente, scadenti nella proposizione di un’esperienza organica all’insegna della scoperta.

Certo, conoscere qualche chicca sul funzionamento delle relazioni nella Nuova Caledonia quanto sul loro folklore è arricchente, ma innestate in un videogioco, queste dovrebbero amalgamarsi a tanti altri elementi e non minare o distruggere il flow di un giocatore, cioè quel flusso sospeso tra la frustrazione, la noia e il divertimento che lo convince a non abbandonare un titolo. Manca inoltre una qualche varietà nel gameplay nel medio e lungo periodo, rischiando di lasciare l’utente nelle veci di semplice spettatore, turista di una terra con la quale vorrebbe invece interagire fino in fondo. A proposito di libertà di esplorazione, è da sottolineare la scelta di non mostrare la posizione esatta della protagonista sulla mappa richiamabile a schermo; inizialmente capace di generare spaesamento, questa decisione si è rivelata in linea con gli obiettivi degli autori.

Tchia

Mutazioni e fisica mancata

L’impianto ludico propriamente detto gioca inoltre su due pilastri, uno appannaggio di Tchia, l’altro sotteso al sistema sandbox e all’esperienza generale, almeno sulla carta. L’abilità sovrumana prima citata è il Salto dell’Anima, che permette a Tchia di assumere il controllo di animali oppure oggetti: sono trenta le diverse bestiole delle quale la ragazzina può vestire i panni, da un geco gigante a un gatto, passando per altri mammiferi e dei pesci; il suo potere si può riversare pure sui sassi o, per esempio, sulle noci di cocco, con la possibilità di lanciarsi in aria e coprire lunghe distanze. Non tutte le trasformazioni hanno un impatto sul gameplay, ma aiutano ad arricchire tale componente di gioco.

Promossa come un aspetto importante nell’economia del gioco, la fisica di Tchia segue in realtà delle regole tutte sue, risultando deficitaria nell’offrire possibilità d’interazioni originali. La realtà è quella di un mondo con ben poca libertà di dialogo, rischiando a volte di generare delle situazioni goffe per il movimento bizzarro dii un oggetto o altro. Il gameplay inciampa davvero nelle sezioni di combattimento contro i Maano, i manichini di stoffa incantata controllati dal malvagio Pwi Dua che pullulano la zona con più accampamenti e roccaforti. Sarà compito della protagonista distruggerli ora con delle lanterne, con dei pezzi di legno, ora controllando gli antichi spiriti Mwaken. L’impalcatura più di azione è tuttavia composta in modo superficiale, con il giocatore che non possiede i giusti strumenti per avanzare senza ricadere nella linea di frustrazione sopra citata.

Tchia

Colori e suoni di una terra lontana

È chiaro che i colori ricoprano un ruolo di spicco nella compagine artistica di Tchia. Nell’inscenare la sua Nuova Caledonia, Awaceb ha tinteggiato ogni paesaggio di cromatismi accesi e saturi quasi sempre piacevoli alla vista, dal quieto oceano blu che si riversa sulla spiaggia in un rivolo bianco schiumoso, al rosso carico di un tramonto, passando per il grigio metallico degli edifici d’importazione europea.

Impossibile poi escludere la musica dal discorso stilistico in merito alla rappresentazione di questo agglomerato di isole: la possibilità di usare un ukulele e altri strumenti, così come le stesse sessioni di canti tradizionali contribuiscono nella creazione di un quadro preciso e coinvolgente del posto. Non solo, l’avventura intera è attraversata soprattutto da suoni diegetici, ovvero connaturati al mondo di gioco, dalla melodia degli uccelli ad altri versi di animali, completando la cornice canaca di Awaceb.


Accettato l’invito a partire per la Nuova Caledonia attraverso la mia PlayStation 5, ho raccolto con piacere lo spirito isolano e poetico di Tchia, ricevendo tuttavia dei risultati contrastanti. L’intenzione di rappresentare una cultura ben poco chiacchierata è intrigante quanto la messa in scena delle sue scenografie così colorate e musicali, quanto le piccole scoperte su un popolo talmente distante dall’Europa, eppure manca il centro. Manca l’imperativo di apportare un equilibrio tra il suo afflato divulgativo e le esigenze di un videogioco.

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6.9
Tchia è un romantico modo di scoprire la Nuova Caledonia, senza però un equilibrio delle sue parti videoludiche.

Pro

  • Centrato l'obiettivo divulgativo a favore della Nuova Caledonia
  • Grande libertà offerta al giocatore
  • Buona direzione artistica, in particolare modo quella musicale

Contro

  • Mancanza di varietà nel loop di gameplay
  • Certe meccaniche sono espresse in maniera goffa
Vai alla scheda di Tchia
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