The Gaming Society – Il futuro è nello streaming. Ma lo streaming è davvero il futuro?

Un'analisi veloce di quello che potrebbe presto accadere al mondo del gaming online.

Benvenuti nella rubrica The Gaming Society, in cui analizzeremo il fenomeno ludico e il suo solido intrecciarsi alla società contemporanea. 

The gaming society

Non disperate se avete perso le puntate precedenti, potrete recuperarle tramite i link qui di seguito:

Puntata I – Il Game Over non è mai la fine

Puntata II – I videogiochi sono un mezzo di comunicazione?

Puntata IIIFortnite, la dipendenza ludica e il disinteresse dell’industria

Dapprima EA Access, un abbonamento annuale che consente di accedere a decine di giochi per vie comodamente digitali. Xbox Game Pass è comparso quasi in contemporanea, con il tentativo non troppo velato di Microsoft di creare un ecosistema multi piattaforma in grado di offrire centinaia di giochi a un prezzo tutto sommato irrisorio. Poi è toccato più recentemente a PlayStation Now, dove oltre alla possibilità di scaricare i giochi, si ha l’opportunità di accedere a titoli in streaming – alle volte mettendosi anche democraticamente in coda – a un prezzo altresì irrisorio rispetto alla grandezza del catalogo disponibile. Infine, da pochissimi giorni, è comparsa sul mercato Google Stadia, una piattaforma “rivoluzionaria” che fa dello streaming online la sua unica religione. In poche parole, cosa sta accadendo?

L’industria è vistosamente impegnata nell’abbattere i limiti “fisici” del concetto di hardware, software e di cicli generazionali, legati inestricabilmente alla concretezza dei supporti e degli apparecchi dedicati al gaming. Questa ormai nuova ed evidente rotta ha innescato sussulti di gioia in una buona fetta della stampa specializzata, che ha stappato bottiglioni e divorato pizzette manco distribuissero redditi di cittadinanza. Sussulti che, a impegnar un secondo in più le meningi, non sembrano essere derivati da una attenta ponderazione perché, assieme a delle luci ovvie, la traslazione forzata verso il digitale porta con se equivalenti (se non più gravose) ombre. Riassumendo, i colossi dell’industria sembrano esser certi che il futuro del gaming giaccia dormiente in server dislocati chissà dove: ma è davvero questo il migliore dei futuri possibili per noi videogiocatori?

Google Stadia

Senza dubbio, l’ipotesi evolutiva ha tanti vantaggi e svariate sfaccettature, che invadono campi parecchio diversi. I vantaggi maggiori sarebbero soprattutto per i publisher principali del mercato, che riuscirebbero in un sol colpo ad abbattere gli enormi costi di produzione fisica e di distribuzione dei giochi, lasciando in teoria risorse economiche “libere” per lo sviluppo. Certo, la non necessità dei due passaggi produttivi si tramuterebbe con ottima probabilità in una decisa ristrutturazione delle aziende coinvolte (a.k.a licenziamenti). Ristrutturazione che, nonostante non ci sia ancora una totale traslazione verso il digitale seppur la tendenza sia sostanzialmente quella, sta già accadendo e mirando proprio i reparti indicati. Molti esclameranno “è l’evoluzione tecnologica, baby“, quasi fosse un naturale processo di trasformazione dettato dalla summa matematica di elementi naturali e incontrollabili.

Ma, in realtà, sarebbe più corretto esclamare “è la ricerca del guadagno, baby“, che consentirebbe nel più classico dei due piccioni con una fava di mantenere guadagni stabili (visto che i prodotti digitali costano solitamente quanto quelli fisici) tagliando notevolmente le spese. Stabili anche perché, probabilmente, i servizi di abbonamento non includeranno proprio tutti i giochi al day one. Ed è quasi scontato che, al di là di strategie opposte dettate probabilmente dalla necessità del momento storico di recuperare terreno perso (vedasi la scelta di Microsoft di includere giochi “pesanti” al day one in Xbox Game Pass), ci sarà ancora meno possibilità che giochi attesissimi come The Last of Us 2 o un ipotetico prossimo God of War vengano inseriti sin dal primo minuto in un abbonamento annuale dal costo di cento euro. Quindi, ci si abbonerà, attratti dalle librerie sterminate (ma spesso qualitativamente altalenanti), e probabilmente si acquisteranno lo stesso le big hit first party delle case produttrici. Tre piccioni con una fava.

Taluni, hanno guardato all’ipotetica traslazione in full digitale anche con un occhio di gaudio rivolto all’ambiente. Dati i numeri esorbitanti dei giochi distribuiti ogni anno, lo streaming certamente ridurrebbe notevolmente il consumo e l’utilizzo di plastiche e materiali affini, a livello globale. Però, come già anticipato, anche in questo frangente un sicuro vantaggio innescherebbe un processo secondario probabilmente peggiore dell’infausta situazione precedente: l’aumento esponenziale dei player “full online” infatti, richiederebbe un adeguamento strutturale delle infrastrutture, a tutto tondo. Quindi, più popolazione digitale, più dati in cloud, più server, più energia consumata per tutti, più inquinamento. Questo trend, per questioni ovviamente non unicamente correlate all’argomento di cui stiamo trattando, era già stato ampiamente previsto dall’Energy Information Administration (EIA), agenzia statistica indipendente dello United States Department of Energy, che parla da anni di un consumo energetico in aumento esponenziale e irreversibile. E se si pensa che circa l’80% dell’energia globale è ricavata da combustibili fossili che, com’è noto da decenni, hanno un altissimo impatto ambientale, si capirà che l’ipotetico gaudio per il risparmio di plastica potrebbe divenire un mezzo sorrisetto. E pure solo accennato.

Quello che però appare più facilmente ravvisabile, sono i tanti vantaggi che arriverebbero per i giocatori. L’abbattimento dei limiti hardware eliminerebbe l’esistenza di giocatori di classe A e di classe B, da un punto di vista non solo di mera estetica grafica, ma anche a livello di sana competizione (più hardware, più FPS). Un altro punto a favore è che, in questo modo, si infliggerebbe un durissimo colpo alla pirateria così come la conosciamo e quindi, almeno in teoria, ci sarebbero più soldi per lo sviluppo e per gli sviluppatori. Anche se però è impossibile prevedere se nasceranno altre forme di pirateria illegale dei giochi: basti pensare ad esempio all’endemico utilizzo di streaming pirata di contenuti televisivi a pagamento, sempre più diffuso e utilizzato. Ma è tutto oro quello che luccica? Il cruccio probabilmente più intuibile, sarebbe quello della latenza e del gaming online. La traslazione in digitale creerebbe la necessità di una connessione a internet perenne (no internet, no party) e che, al contempo, sia sufficientemente “larga” e dalla latenza bassa.

Chi gioca da qualche tempo online, sa molto bene come sia estremamente difficile per i provider italiani attuali garantire al 100% linee internet in grado di rendere degnamente in una classica connessione “Peer to Peer” o “Client-Server”, strutturalmente “basiche”. Senza contare che, concretamente, lo stato di salute delle connessioni italiane non è esattamente roseo, come indicano i dati. Ma, in termini strettamente ludici, giocare compierebbe probabilmente uno step evolutivo in peggio, anche per coloro dotati di una connessione in linea con le richieste espressamente indicate dai fornitori dei servizi di streaming. Connessione che dovrebbe sopportare un notevole sforzo, ovvero quello dello streaming in tempo reale di contenuti estremamente complessi e ingombranti a livello di compressione dati in pacchetti come un moderno Tripla A. Se il discorso diventa di base complicato già con un titolo “offline” basato sul timing, come ad esempio un qualsiasi soulslike, immaginare lo streaming di contenuti ludici come standard per i titoli competitivi multiplayer online, significa probabilmente sperare in una rivoluzione quasi divina degli strumenti tecnologici attuali. Alla questione, si aggiunga che il temutissimo Digital Divide, ovvero la copertura ancora non ottimale sull’intero territorio nazionale, è ancora un problema concreto e in via di risoluzione e il full streaming di base taglierebbe fuori dal gaming una discreta percentuale di potenziali giocatori.

Ma, in linea di massima, le problematiche espresse sin d’ora riguarderebbero tutto sommato questioni si d’impatto, ma relativamente capovolgenti per l’industria e l’utenza. La traslazione in full digitale, la quale è sempre più prossima guardando i dati dei mercati maggiori, potrebbe in realtà avviare un processo potenzialmente letale per il mondo ludico che tanto amiamo. Innanzitutto, la scomparsa di console hardware classiche in favore di una sorta di ripetitori di contenuti o di mero accesso a essi virtuale, imporrebbe de facto la creazione di un intermediario di servizi, il quale avrebbe completa facoltà di rendere accessibile o meno un gioco o intere librerie di contenuti ludici, proprio perché in controllo del servizio stesso d’accesso: in sostanza, le aziende dispensatrici dei servizi andrebbero a comporre una sorta di cartello asimmetrico con un potere enorme, in grado arbitrariamente di decidere le sorti di migliaia di opere ludiche con la semplice pressione di un tasto. La cosa costringerebbe ipoteticamente in una posizione subordinata il cliente pagante, al quale sarebbe imposta l’accettazione dell’accessibilità dei contenuti ad arbitrio dell’intermediario attraverso uno user agreement ad hoc.

Paradossalmente, la questione toccherebbe anche l’ipotetico sviluppatore di giochi, il quale potrebbe veder limitata o addirittura azzerata la possibilità che il proprio lavoro arrivi sulle piattaforme principali o agli occhi dell’utente finale. Gli intermediari, controllando l’infrastruttura di streaming, avrebbero pieno controllo e facoltà decisionale sull’accessibilità e indirettamente un peso enorme anche sulla tariffazione, la tipologia di fruizione utilizzabile dai clienti, la percentuale dei guadagni destinata agli sviluppatori ecc. E, nonostante si stiano facendo ipotesi verosimili su di un futuro ancora piuttosto lontano e imperscrutabile, la teoria ha già un fondamento non troppo dissimile concettualmente nel passato recente: basti pensare all’infinità di giochi online, MMO e MMORPG chiusi definitivamente dalle aziende per questioni di bilancio e affini, con tanti saluti ai soldi e al tempo investiti dai player. Perché un servizio che inizia, prima o poi finisce.

La faccenda, in realtà, fungerebbe da apripista a un’altra problematica piuttosto nota, ovvero la questione legata alla proprietà legale dei prodotti digitali. La proprietà di un oggetto non fisico è naturalmente testimoniata da tracce digitali ma concretamente vincolata da un’infrastruttura, software o hardware, costruita appositamente per permetterne l’accesso e il conseguente utilizzo, la quale non si troverebbe al 99% delle probabilità nel diretto controllo di chi acquista il servizio. In questo senso, acquistare un abbonamento o un contenuto digitale ci rende proprietari virtualmente, ma subordinati fisicamente a chi fornisce il servizio d’accesso. Nel momento in cui l’azienda dovesse fallire o decidere di rimuovere, bloccare temporaneamente o a tempo indeterminato il servizio d’accesso ai contenuti da noi acquistati, noi non avremmo più niente. Tabula Rasa. Nisba. Zero Assoluto. Ancora una volta, la situazione degli MMORPG morti e sepolti funziona nuovamente come precedente piuttosto concreto.

L’utente, dopo aver sborsato cifre considerevoli, si ritroverebbe in mano sostanzialmente nulla di fisicamente accessibile e utilizzabile. Né giochi, né tanto meno un hardware concreto che consentirebbe l’accesso a un ecosistema particolare (della serie, “se non hai la Switch non giochi a Mario Odyssey”). Per quanto antipatica e poco funzionale, la suddivisione del mercato in base alle piattaforme rende gli oggetti acquistati, de facto, “unità” dall’identità precisa e dalla funzione specifica, rivendibili proprio perché riconoscibili e riconosciute in quanto “piattaforma x per accedere a contenuti y”. Quindi, l’ipotetica traslazione in full digitale infliggerebbe un colpo mortale al mercato dell’usato e zero possibilità per un utente normale di poter tamponare le eventuali perdite, con i flussi di denaro che prenderebbero l’unica via quindi rimasta: il portafoglio degli intermediari. Mentre una console “morta” con giochi fisici avrebbe potenzialmente un mercato di rivendita o addirittura una nuova e insperata vita, anche dopo decadi dal suo ingresso nel mercato (si pensi alla scena odierna legata al Commodore 64). E, per scansare abilmente eventuali beghe legali, la piena e unilaterale facoltà decisionale degli intermediari dei servizi sarebbe probabilmente inserita come clausola da accettare nei Termini di Servizio. Della serie “La chiave è tua ma la serratura è mia”. Perciò, nonostante l’intero articolo sia in larga parta un elucubrare su questioni più o meno concrete e più o meno verosimili, la questione permane ancora saldamente in dubio: il futuro è nello streaming, ma lo streaming è davvero il futuro? 

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