The Gaming Society – Fortnite, la dipendenza ludica e il disinteresse dell’industria

Divertente passatempo o forma di schiavismo invisibile?

Benvenuti nella rubrica The Gaming Society, in cui analizzeremo il fenomeno ludico e il suo solido intrecciarsi alla società contemporanea. Avete perso le puntate precedenti? Non disperate, potete recuperarle tramite i link qui di seguito:

Puntata I – Il Game Over non è mai la fine

Puntata II – I videogiochi sono un mezzo di comunicazione?

Oltre a dilettarmi nello scrivere di videogame e affini, la mia vita è costellata di tanti impegni quotidiani: alcuni ordinari come l’andare a lavoro, altri meno ordinari e piacevoli con cui purtroppo, la realtà ogni tanto cerca di ostacolarci o rallentarci. Nel mio lavoro quotidiano, in cui tratto fra le altre cose anche di videogame, mi ritrovo spesso a parlare con persone di varie questioni, e qualche giorno fa, cinque minuti dopo la fine effettiva del mio turno, mi ritrovai a parlare con una signora sulla quarantina che, dapprima in un clima disteso e tranquillo, mi pose alcune domande innocue inerenti la mia occupazione. D‘improvviso, mutando diametralmente tono e umore, mi rivolse una domanda tanto semplice, quanto complicata: “Come posso staccare mio figlio da Fortnite?“.

La domanda mi ha lasciato un po’ interdetto per tante motivazioni che improvvisamente mi sono risalite in gola. Avrei voluto rispondere qualcosa di simpatico e leggero, ma non ho avuto la forza. Un po’ per uno sguardo che emanava stanchezza, quasi stesse combattendo una lotta impari contro un leviatano all’apparenza imbattibile, un po’ per la mia personale e subitanea “vergogna” di appartenere a un mondo che, nonostante i buoni intenti e la morale che si trascina (stancamente) dietro, spesso dimentica con facilità che videogiocare non è più un semplice hobby, ma sempre più una mera questione di cieco bilancio. La domanda, per certi versi, ha anche fatto riaffiorare in me un periodo particolare della mia vita, in cui videogiocare era diventata l’unica attività quotidiana, l’unica cosa da fare degna d’esser fatta davvero. Un periodo che ricordo con nostalgia, cosciente anche dello spropositato ammontare di tempo investito in un’attività che, per una persona senza particolari abilità come me, poteva tradursi in un’unica parola: spreco. In questo miscuglio tempestoso istantaneo, ho ributtato in gola a fatica tutti i miei dubbi e ho chiesto candidamente quale fosse il problema.

Dipendenza videogame Fortnite

La signora mi ha parlato di suo figlio, il quale da mesi passava ore ed ore sul gioco targato Epic Games, lo stesso ragazzino che, semi-abbandonata la scuola e la squadra di calcio rionale, aveva concentrato la sua vita unicamente su Fortnite. La signora, in totale sincerità, mi parlò di come – senza soluzioni  lei e il marito si ritrovarono costretti a rivolgersi a uno specialista, per cercare di far rientrare in un percorso “normale” la vita del ragazzino. Scambiate queste infauste chiacchiere, ad un mio stupido ed insignificante “Mi spiace”, improvvisamente il ragazzino apparve, un po’ pallido e con gli occhi rossi e gonfissimi; la signora a quel punto rivolse lo sguardo all’orario sullo schermo del telefono e mi salutò, in un lampo. Non so se davvero avesse avuto un impegno imminente o stesse semplicemente fuggendo da una discussione diventata improvvisamente insostenibile e inutile, vista anche la mia inadeguatezza formale nel fornire un concreto supporto “professionale”. Questo piccolo evento mi ha ricordato una cosa fondamentale: i videogame creano dipendenza, e la dipendenza uccide.

Una premessa è d’obbligo: la video-dipendenza non è nata con Fortnite, ovviamente. Il gioco Epic Games è solo il caso del momento poiché la patologia venne già riconosciuta clinicamente decadi fa con la nascita della TV e tanti studi recenti lo dimostrano. Ma è anche vero che, dato il successo senza precedenti, Fortnite è uno dei videoludi più assuefacenti dell’intera storia dell’industria, numeri alla mano. Un’opera in grado di creare un forte legame di dipendenza, tale da esser paragonato da alcuni esperti all’eroina e alla sua terribile capacità di incidere significativamente sulla buona salute del corpo e della mente, in caso di largo consumo. E i casi sono davvero tanti, di ragazzini finiti in riabilitazione perché non in grado di staccare, letteralmente, la spina.

Dipendenza videogame Fortnite

Nonostante la gravità, puntare il dito unicamente contro Epic Games o l’industria stessa sarebbe come accusare il mare di tutti i disastri navali della storia perché, di fatto, “homo faber fortunae suae”. E nonostante fare il genitore oggi sia un lavoro quasi insostenibile visti i ritmi e le difficoltà in continua evoluzione della vita comune, spesso si sottovaluta colpevolmente il problema, un po’ per ignoranza sostanziale, un po’ per concreta mancanza di tempo e impreparazione tecnica. Spesso per bisogno o comodità, i bambini vengono abbandonati come oggetti dinanzi a televisori e console, ignorando il fatto che potrebbero non avere sufficiente forza cerebrale per resistere al seducente bombardamento di cui i succitati arnesi son ripieni fino a scoppiare. Nonostante le varie concause, è comunque sconvolgente vedere come oggi la stessa industria abbia preso, di fatto, piuttosto sotto gamba la questione. In Fortnite stesso, ad esempio, non esistono meccanismi che, in qualche modo, aiutino l’utenza a ricordare di essere in sessione da parecchio tempo invitando a fare una pausa, a staccare un attimo e ritornare a respirare nel mondo reale. Anche questa volta, Fortnite non è il solo colpevole di questa mancanza, purtroppo, poiché riscontrabile nella stragrande maggioranza dei videoludi dalla forte identità competitiva online, quasi un’indiretta indicazione del fatto che all’industria interessi poi molto relativamente della condizione psico-fisica dei suoi avventori.

D’altronde, per un game as a service che punta a instillare un bisogno fisiologico di giocare e di “shoppare” (Dante abbi pietà di noi N.d.R), con in mente un target anagrafico tendente al basso probabilmente perché più facilmente convincibile, creare degli scudi che impediscano all’utenza di annegare nel gioco potrebbe essere economicamente controproducente. Ed è ormai palese, anche grazie alle moderne strategie di impresa che invogliano l’utenza a spendere soldi reali per acquistare merce digitale in-game, che l’industria videoludica stessa guardi con spiccato interesse alle strategie messe in atto dalle compagnie del gioco d’azzardo, mercato fondato completamente sull’incentivare la dipendenza in modo chirurgico e sapiente. Ad esempio, l’utilizzo di una currency non reale anche se connessa all’utilizzo di soldi veri, crea nella persona una estraniazione fra quanto si spende in gioco e quanto la somma spesa valga nella vita reale.

Uno studio, condotto su questo concept di fondo, ha altresì individuato che chi utilizza le carte di credito è soggetto allo stesso tipo di fenomeno di dissociazione, il che diverrebbe tecnicamente doppio in ambito videoludico. Ora, se fuoriuscire da questo tipo di dipendenza è complicato per una persona adulta, in che modo un bambino di dieci anni potrebbe difendersi da una strategia votata alla creazione di un legame di dipendenza? Nonostante ci siano delle differenze sostanziali tra i settori, visto che spesso giochi del genere sono gratuiti e non pongono solitamente barriere economiche per accedere ai contenuti proposti, è naturale che più si gioca, più si ha potenzialmente voglia di acquistare qualcosa che vada a modificare il nostro alter-ego virtuale, sempre più identità reale. Ed è quindi impossibile non vedere come i game as a service abbiano necessità di creare un legame piuttosto forte con l’utenza: se non mi sento “io” nel gioco, non inizierò a spenderci soldi.

Ma è sempre stato così? In passato in alcuni MMORPG (i quali alcuni lustri fa erano i protagonisti assoluti della dipendenza da videoludi), vennero attivati dei modesti reminder del tempo speso in gioco. Ricordo ad esempio come sul primo Guild Wars comparisse un messaggio ogni ora che, dopo averne trascorse un paio in gioco, ti consigliava una bella boccata d’aria fresca. Ma non solo l’industria ha delle evidenti mancanze: anche gli streamer professionisti, spesso canguri ammaestrati e pre-confezionati pronti al salto olimpionico da un ludo all’altro in base al trend economico del momento, non sono esattamente un esempio per i ragazzini che, non avendo quasi sempre le armi cerebrali necessarie per distinguere il piacere presunto nel giocare dall’esser pagati profumatamente per farlo (magari anche controvoglia), li imitano pedissequamente cercando fama e successo con ore infinite di gioco che, per la maggior parte di loro, si traducono in un unico, enorme spreco di tempo e di vita vissuta.

Dipendenza videogame Fortnite

La serietà con cui bisogna prendere la video dipendenza è tale che persino l’OMS (Organizzazione Mondiale della Sanità), ha classificato la questione fra le “International Diseases” (ICD-11) definendola “Gaming Disorder”. Ovviamente, la stessa Organizzazione Mondiale ha individuato, attraverso uno studio pilota condotto nel 2013 alcune caratteristiche principali dei videoludi concepiti strumentalmente come delle “trappole” pronte a imprigionare i più deboli. Lo studio in questione ha individuato nella spiccata identità social e nella struttura a ricompense progressive, alcuni degli elementi classici dei giochi in grado di creare un malsano bisogno ludico, confermando un altro studio condotto due anni prima dall’università dell’Iowa State, il quale individuava tracce di disordini mentali come ansia, depressione, fobia social ecc, in circa 3000 bambini delle scuole elementari di Singapore abitudinari di giochi online costruiti attorno la succitata struttura.

Una domanda, a questo punto, sorgerà spontanea nell’eventuale genitore-lettore: “Mio figlio è video-dipendente?” Nonostante il mesto riconoscimento ufficiale, la pericolosità della problematica sta proprio nella sua formale invisibilità. Non esistono infatti vie certe ed assolute per confermare una reale video dipendenza, vista anche la sottilissima differenza che intercorre fra un aficionados che dedica tanto tempo al suo hobby e una persona che ha sviluppato una reale dipendenza. L’unica cosa realmente assodata sono le conseguenze piuttosto pesanti che una dipendenza lasciata crescere indisturbata può comportare, sia a livello personale che inter-personale. In linea di massima, il buon senso dovrebbe quantomeno individuare la possibilità che vi sia il problema da tanti piccoli segnali rivelatori che è abbastanza semplice scorgere.

Oltre alla quantità di tempo spesa, la quale però non è un’indicazione assoluta, i reali indicatori sono da ricercarsi nel peggioramento delle “performance” sociali, scolastiche e/o lavorative, soprattutto se le sessioni videoludiche restino temporalmente invariate nonostante siano evidenti agli occhi della persona le conseguenze negative. Un altro fattore da tenere in considerazione è il ruolo che l’attività ludica occupa nella scala gerarchica delle priorità giornaliere: se giocare occupa con regolarità il tempo destinato ad altre attività più importanti come lo studio, il lavoro o il dedicarsi ad attività sportive, l’aspetto potrebbe rivelare l’esistenza di un problema. L’Associazione degli Psichiatri Americani ha creato un piccolo quiz dedicato ai genitori, in grado di offrire uno screening di massima che possa far scattare un campanello d’allarme.

Dipendenza videogame Fortnite


Naturalmente, staccare direttamente la spina del router o buttare nella spazzatura le console di gioco non risolverebbe la situazione. Anzi, probabilmente queste azioni innescherebbero alcuni dei meccanismi automatici classici di chi è effettivamente dipendente, tra attacchi di panico, crisi isteriche e scatti d’ira distruttivi. Di base si può provare a dialogare, cercando di mostrare che esiste una vita al di fuori della propria camera, sensata e degna d’esser vissuta, e che giocare troppo non crea nulla. Nel caso ci fosse la certezza dell’esistenza di un problema, è consigliata comunque la consultazione di un professionista o di un centro di recupero da ludopatia per inquadrare un percorso terapeutico ad hoc.

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