Death Stranding – Recensione

Recensito su PlayStation 4

Un tempo ci fu un’esplosione, un annuncio che sembrò dare origine al tempo e allo spazio.

Era il 13 Giugno del 2016 e l’E3 2016 vide Kojima tornare (se mai l’avesse lasciato) sul palco della nostra attenzione con l’annuncio di Death Stranding, il primo gioco creato dal suo game studio, Kojima Productions. Il trailer era a dir poco enigmatico, ma aveva (e ancora ha) mille spunti di riflessione, così tanti da rendere l’attesa una tortura anche per il fan minimamente interessato all’effettivo outcome della mens prolifica di Kojima.

Da lì fu tutto un emozionante roller-coaster, con trailer rilasciati di sorpresa, news direttamente da Kojima Productions e milioni di milioni di teorie sui probabili contenuti narrativi del gioco.

Death Stranding

Un tempo ci fu un’esplosione, una release dedicata alla sola stampa che lasciò Death Stranding roteare nel vuoto cosmico delle coscienze impreparate ad accoglierlo, ancorate solo alla nostra voglia di giocarci, per immergerci completamente in esso e scoprire se in fondo tutta quell’attesa era valsa a qualcosa. Un tempo ci fu un’esplosione, una cascata di recensioni che in alcuni casi sembrarono lodarlo almeno quanto in altri sembrarono stroncarlo come l’enorme delusione di un game designer i cui limiti erano stati fino a quel momento nascosti dalla titanica ombra di Konami.

Un tempo ci fu un’esplosione, un’uscita pubblica che rese difficile districarsi tra fanboy e detrattori alla cieca, con entrambe le parti apparentemente cadute nell’invisibile trappola del giudicare Death Stranding solo per il costume da “gioco” che veste.

Death Stranding

E poi ci sarà un’altra esplosione: quella della vostra mente quando metterete le mani, se ancora non l’avete fatto, su Death Stranding, quando ne attraverserete gli spazi e ne affronterete le emozioni, quando vi lascerete schiaffeggiare e poi cullare dal messaggio che inevitabilmente si nasconde fra i pixel del titolo di Kojima. Death Stranding ci può metaforicamente salvare da noi stessi, dobbiamo solo avere la maturità emotiva per mostrargli il fianco della nostra vulnerabilità.

Nella nostra analisi di Death Stranding cercheremo di usare la stessa dualistica metrica che fece partire Kojima nel suo processo creativo, quella manicheistica divisione degli strumenti creati dall’uomo in bastoni e corde, originariamente “portata alla luce” da Kobo Abe.

Partiamo dalla trama.

Death Stranding

Vestirete i panni di Sam Porter Bridges, un corriere (“porter”) che, per sua stessa ammissione, pensa solo ad arrivare a fine giornata in un mondo in cui il suo ruolo è un’essenziale comodità: il continente è stato devastato da un fenomeno apocalittico chiamato “Death Stranding”, evento talmente catastrofico nella sua incomprensibile vastità da aver frammentato l’America in tante piccolissime realtà, mini-comunità che hanno preferito rimanere isolate e chiudersi in sé stesse piuttosto che contribuire al – mai più necessario di ora – benessere collettivo.

Death Stranding

Sam si ritroverà affidata la missione di ricostruire la società e riconnettere l’America da costa a costa, muovendosi da Est a Ovest, consegnando il cargo necessario a queste isolatissime realtà per aiutarle e convincerle a riunirsi alle UCA (United Cities of America) e, di conseguenza, al network chirale, una sorta di super-rete internet che utilizza alcune interessanti proprietà del Death Stranding.

Death Stranding

Il core loop ruota attorno a questo: la consegna da A a B di importanti pacchi dalle varie dimensioni, peso, importanza e natura, rispettando anche alcune necessarie richieste di base, come l’evitare di far entrare il cargo in acqua, o la presenza di un tempo limite per la consegna.

A questo fine è l’ambiente il nostro principale, onnipresente e ineluttabile nemico, un mondo di gioco che ci sfida costantemente a superare i limiti imposti dalle condizioni di consegna ma anche le nostre eventuali mancanze di abilità o mezzi, tutti elementi di un titanico ma equilibrato Man VS Nature che non si può non associare a titoli classici come Moby Dick o Il Settimo Sigillo.

Death Stranding

Il menu dedicato proprio alla gestione del carico è inizialmente straripante di opzioni, indici e parametri ma, come molti altri aspetti di Death Stranding, è ostile solo inizialmente, esattamente allo stesso modo di una delle alture o dei crepacci del suo mondo.

La fase preparatoria, almeno quella relativa al posizionamento del carico sulle proprie spalle, è velocizzata da un comodissimo comando che ci permette di metterci in viaggio on-the-go, sicuri di avere la migliore delle configurazioni possibili; rimane però intatto il fascino di prepararsi alla scarpinata in ogni sua tappa, osservando la mappa e creando marker intermedi capaci di guidarci fino a destinazione senza essere costretti a mettere costantemente in pausa per valutare il percorso.

Death Stranding

L’attraversamento degli ambienti è reso ancor più immediato dall’Odradek, una sorta di sensore posto sulle nostre spalle che, alla pressione di un tasto, analizza il terreno direttamente di fronte a noi e restituisce un feedback immediato su ciò che ci sta attorno: ostacoli, nemici, punti di interesse o cargo (abbandonato, dimenticato o perso da altri).

Death Stranding

Se inizialmente è la trama, di cui non vi parleremo ulteriormente, a inglobarci nelle sue intricate insenature, sono le meccaniche a tenere saldamente in piedi l’impalcatura di gioco, perfetto esempio delle capacità di Kojima come game designer. Perché Death Stranding è un gioco sì complesso ma che non cede mai all’essere complicato: sì, sono molti i tasti da premere e parecchi sono gli indizi visivi da osservare anche solo per far camminare in modo equilibrato il protagonista Sam, ma diventano molto velocemente automatismi, e ci lasciano in mano “solo” il piacere della scoperta di quella particolare scorciatoia o del superamento di quel fronte innevato particolarmente ostico.

Death Stranding

Death Stranding è un gioco in cui si cammina, molto. Forse il più affidabile e pindarico dei walking simulator in commercio, ma ridurlo al semplice tragitto da A e B è l’equivalente di chiamare Super Mario solo un gioco in cui si salta: i viaggi sempre più straordinari sui quali ci incammineremo nei panni di Sam sono quasi uniformemente della “giusta” distanza e/o durata, con un traguardo costantemente oltre i limiti della nostra naturale pigrizia ma anche più in qua dello stancarsene prima di averli raggiunti; anche se ci interfacceremo quasi totalmente con le proiezioni olografiche delle persone che aiutiamo con il nostro loop di “presa in carico e consegna”, è impossibile scrollarsi di dosso la sensazione di essere davvero d’aiuto per la loro sopravvivenza, a volte non strettamente fisica ma anche e soprattutto emotiva, spirituale, sociale.

Death Stranding

Il contesto di ricongiunzione del paese sotto la ragnatela connettiva offerta dalle UCA e dal network chirale assume quindi fin da subito il ruolo di background metanarrativo su cui tutto il messaggio di Kojima e del suo Death Stranding si pone: ci stiamo isolando, allontanando, chiudendo in noi stessi, e dietro la miopia dei nostri più primari e immediati istinti, tappando le orecchie alle necessità dei nostri “coinquilini”, un po’ come se stessimo solo aspettando la fine; è un torpore pre-apocalittico dal quale dobbiamo risvegliarci presto, smettendo prima di tutto di auto convincerci che da soli le cose non possiamo cambiarle perché è proprio senza di noi che un cambiamento non è possibile.

In questo Death Stranding è forse il gioco più rivoluzionario del panorama, almeno per ciò che Kojima vuole che rappresenti: in un mondo “bastone”, sia videoludico che non, che ci ferisce e abbandona, la risposta potrebbe davvero essere una “corda”, ossia ciò che ci unisce… o ciò che può unirci, almeno.

Death Stranding

Sam, consegna dopo consegna, riaccende la fiamma della speranza in comunità e città che non si ricordano nemmeno più come si scrive “speranza”, restituendo la voglia di vivere a chi, dal Death Stranding in poi, si accontenta di sopravvivere.

Nel giocare a questo titolo, infatti, sono molte le situazioni in cui paradossalmente si ha la sensazione di aver davvero cambiato le cose, più di quanto magari può riuscire a fare un gioco a più storyline come Mass Effect o un qualsiasi Telltale: se negli esempi citati il viaggio è prima di tutto personale, Death Stranding riesce nell’impossibile equilibrio di essere il viaggio di Sam, il nostro e quello dell’umanità intera, sia in-game che fuori; è soprattutto in uno dei twist narrativi del finale che ci si ritrova commossi (o, come noi, direttamente in lacrime) dalla presa di coscienza di quanto il titolo di Kojima stia parlando a noi di noi, come persone e come esseri umani, come padri e come figli.

Death Stranding

Ogni aspetto di Death Stranding è funzionale al messaggio che vuole trasmettere, dalle meccaniche di traversing alla totipotente struttura narrativa, fino alla geniale asincronicità del multiplayer: in quella che di primo acchito è una battuta chiaramente scaturita dalla tossicità del web ma che ad una seconda analisi effettivamente si rivela verità, Kojima ha detossificato la tradizione del multiplayer classico depurandolo della sua parte peggiore, ossia l’aver a che fare con altre persone; in Death Stranding il nostro interagire con gli altri è infatti “limitato” a dei like e a una voce che risponde al nostro richiamo, attivabile cliccando sul touchpad del Dualshock.

Death Stranding

Un pregio innegabile del titolo di Kojima sta proprio in questa interazione con un mondo che c’è ed esiste in modo completamente non invasivo: è davvero ottimo il contrasto fra le prime ore di gioco, in cui ci suderemo ogni scala e corda nei nostri tentativi di attraversamento, e la prima occasione in cui, connesso il “nodo” al network chirale, ci ritroveremo letteralmente circondati da strutture, cartelli e aiuti di sconosciuti compagni di viaggio virtuali, che con la loro disinteressata generosità (Kojima ne è chiaramente forzatore e complice) ci semplificano il viaggio (aka, la vita).

Death Stranding

C’è qualcosa che si perde in questo loop di esplorazione senza aiuti/connessione al network chirale/successiva esplorazione aiutata dai beni condivisi, ossia il piacere di risolvere l’enigma che l’ambiente ci pone davanti nel suo attraversamento, ma è una sensazione che sorge solo in chi gioca con ottica egoistica, chi cade nel limite concettuale preesistente della necessità di un guadagno immediato a seguito di un’azione all’interno del gioco: ogni ponte che costruiremo o autostrada che ripareremo aiuterà noi, certo, ma sarà potenzialmente essenziale per la facilitazione di decine di altri giocatori; mai come ora il “bene comune” è visto come l’unico logico obiettivo e modus operandi da attuarsi, certo forzato dalla mano di Kojima ma non per questo meno efficace nel ricalibrare la nostra bussola morale durante l’analisi della realtà fortemente “bastone” della maggior parte del restante panorama videoludico.

Death Stranding

L’interazione fisica di Sam in Death Stranding è quasi solo con i suoi nemici, siano essi i BT, entità soprannaturali spiaggiate in questo sottile limbo fra vita terrena e oltretomba (che potremo osservare solo tramite il nostro Odradek e il BB ad esso collegato), o i Mules, corrieri anch’essi ma talmente intrappolati nel loop di presa e consegna del carico da essere diventati una sorta di predoni, sempre alla ricerca della prossima dose di cargo da rubare al primo sfigato che passa.

Death Stranding

Se i BT non smettono mai veramente di inquietare, pur svestendosi in parte, durante la run, della minaccia totale che all’inizio rappresentano – fatta eccezione per gli almeno 3 boss che ci troveremo ad affrontare con la temibile sensazione di essere costantemente svantaggiati – è l’interazione con i Mules a risultare la sublimazione di quello che forse è l’unico vero grosso difetto di Death Stranding, l’intelligenza artificiale.

Partendo dal presupposto (ironico, visto il curriculum di Kojima) che affrontare i Mules in stealth è particolarmente ostico, vi ritroverete spesso a dovervi difendere da una mezza dozzina di essi, ma dopo aver visto che basta una manciata di pugni e calci ben piazzati ad abbatterli la sensazione di pericolo svanirà molto velocemente; di contro nella seconda metà del gioco vi ritroverete davanti a una versione ancor più priva di remore morali rispetto ai Mules, che preferirà spararvi piuttosto che limitarsi a privarvi del vostro cargo, particolarità che renderà gli scontri più interessanti ma che mostrerà il fianco di un combat system non veramente pensato per questo tipo di situazioni.

Death Stranding

Se ce lo concedete, vogliamo subito toglierci di gola il rospo e parlarvi al volo del secondo palese difetto di Death Stranding: per attraversare le sconfinate distese del mondo di gioco non dovremo esclusivamente fare affidamento ai nostri piedi, ma ci verranno in aiuto dei mezzi, a 2 e 4 ruote, utili ad accorciare le distanze ma completamente ingestibili non appena ci ritroveremo anche solo una pietra sul percorso, reiterato outcome di così tante scarpinate da renderci infastiditi anche solo al lontano pensiero di prendere un volante in mano.

Death Stranding

Il mondo di Death Stranding è fatto, per sua natura, di molti silenzi, vuoti acustici che però vengono colmati in modo davvero maestoso da alcune selezionate sonorità, indubbio frutto della cultura musicale di Kojima: in molte civiltà, da sempre, il concetto di “buono” e “bello” sono un’unica realtà e, in pieno rispetto del kalòs greco, Death Stranding ci porterà ancora e ancora a vivere quella perfetta endiade di piacere estetico e perfezione funzionale che mai come ora si avvicina al nipponico yashi; musiche e senso estetico si fondono ripetutamente in momenti di puro piacere per gli occhi e le orecchie, siano essi il sorgere di una città in lontananza sotto le note di una delle tante canzoni di Low Roar (qui elevato da Kojima a ibrido fra Euterpe e Melpomene) o l’abbraccio di un padre e un figlio accompagnato dall’epica malinconia di “BB’s Theme”.

Ulteriore fulcro dell’opera di Kojima Productions è l’ensemble di personaggi, ognuno caratteristico e degno di merito, tanto che ogni capitolo dei 15 di cui Death Stranding è composto porta il nome di uno di essi: da Heartman fino a Deadman, da Fragile a Die-Hardman, ogni singolo membro di questo collettivo è più di quanto appare, ulteriore lancia da spezzare in favore di un game designer che, pur nell’assurdità dei suoi personaggi o del contesto in cui navigano, ci ricorda che l’approccio what you see is what you get è più fallace che funzionale, quasi a spingerci ad ascoltare più che a sentire, a guardare piuttosto che vedere; Kojima chiaramente osserva il mondo e chi lo abita con una profondità invidiabile, dono e maledizione di chi, come i protagonisti di Death Stranding, molto soffre o molto ha sofferto.

Death Stranding

Nell’approcciare la fase conclusiva di questa recensione sentiamo il bisogno di farvi capire proprio questo, ossia che Death Stranding non è assolutamente un gioco per tutti.

Siamo convinti che il titolo di Kojima Productions sia in grado di dire qualcosa ad ognuno di voi, magari in modi più palesi, forse nel sotto testo del tono di una frase, o dietro l’oscurità di uno sguardo, ma è un’opera che parla e dice cose necessarie. Perfino i nemici hanno delle motivazioni credibili e quasi condivisibili, rivelandosi meno machiavelliche macchine da guerra – alle quali alcune realtà videoludiche e cinematografiche ci hanno abituato – e più persone come noi: rotte, fragili, sicure di aver oltrepassato il punto di non-ritorno e che si abbandonano all’oscurità senza il peso della speranza di poterne uscire.

Death Stranding

Non è facile tracciare solchi così profondi nel terreno di un panorama così già brutalmente mosso dai tacchi di altre mastodontiche realtà, ma Death Stranding ci riesce con l’eleganza di una carezza e la delicatezza di una lacrima, assopendo le irrequietezze emotive di chi, in questo mondo di costante fretta e asettica freddezza, vuole solo… provare.


Death Stranding è conferma funzionale della natura fisiologica di Kojima (e della bio del suo account Twitter), quella di un game creator il cui corpo è fatto al 70% da film: ogni inquadratura, ogni scelta estetica, ogni parentesi meccanica è espressione del suo desiderio di comunicare, di raccontare, di farci evolvere a quell’Homo Ludens che sin da Hoizinga è riconosciuto come prossimo necessario step per la nostra sopravvivenza. Certo, l’intelligenza artificiale di alcuni nemici e dei mezzi dal feel fin troppo arcade potrebbero far storcere il naso, ma Death Stranding è come noi: lungi dalla perfezione ma comunque tendente all’eterno inseguimento di essa, imperfetti ma non per questo meno straordinari. Ne vale la pena? Assolutamente sì.

9.3

Pro

  • La storia è uno slow burn micidiale per le corde del cuore di chiunque
  • La difficoltà delle mille meccaniche evapora facilmente
  • Il feel del mondo di gioco non si smentisce mai
  • Ci sono momenti di perfetta unione fra forma e funzione

Contro

  • Usare i mezzi è quasi sempre un incubo
  • L'intelligenza artificiale di alcuni dei nemici è piuttosto elementare
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