Monochroma – Recensione

Limbo fu un bello scossone, alla sua uscita. Un platform tanto semplice nelle meccaniche quando profondo nel narrare una storia toccante – nel senso che ti tocca a schiaffi in faccia – senza dire una parola. Forte di un’estetica minimale, rafforzata da un ottimo uso del bianco e nero, Limbo è tutt’ora uno dei mostri sacri dello sviluppo indipendente. In questi giorni ne è uscito anche un seguito spirituale, Inside, che il nostro Giovanni ha premiato con un 9. Sembra quindi una scelta un po’ infelice il proporre la riedizione console di Monochroma proprio ora, visto quanto il lavoro di Nowhere Studio sia palesemente una derivazione di Limbo. Non che il gioco in questione sia brutto, anzi, anche se certamente non è un capolavoro. Il punto principale è però che scontrarsi non i giganti non è una buona idea.

Bambini in bianco e nero

La trama di Monochroma non è molto chiara, ed anche nella narrazione si rifà a quello che fu Limbo: una narrazione che non dice nulla esplicitamente, che lascia molto al giocatore, e che cerca di essere emotivamente toccante. Dove Limbo però riusciva, mettendo in piedi un’atmosfera onirica e impalpabile,Monochroma scivola mentre cerca di creare un background che non risulta chiaro, per quanto ci si possano leggere delle potenzialità. Il gioco si apre con due bambini, verosimilmente due fratelli. Uno dei due, il più piccolo, però si fa male, e sarà compito dell’altro portarlo sulle spalle durante una fuga. Da cosa, però? E soprattutto, perché i bimbi giocavano allegramente e poi di punto in bianco si trovano a dover fuggire? Il gioco trattggia un mondo distopico, di orwelliana memoria, in cui non si vedono esseri umani se non i protagonisti e un energumeno che a volte ci insegue. Ci sono poi robot e fabbriche, e all’inizio si vedono delle capsule contenenti bambini apparentemente morti (questo punto verrà chiarito nelle ultimissime battute del gioco). Torna però la domanda: perché a un certo punto questi bambini si mettono a fuggire? Non facciamoci troppe domande e andiamo oltre. Il tutto ad ogni modo scorre liscio, portando sullo schermo quattro zone di questa città interamente grigia. Sembrerebbe esserci tanto da dire, peccato che il gioco non riesca a farlo. Lo stretto rapporto tra i due bambini, in cui uno deve essere trasportato dall’altro, essendo altrimenti in balia degli eventi, porta con se una grande carica emotiva, almeno nelle intenzioni dello sviluppatore. Il risultato, purtroppo, non riesce a far coppia con questa intenzione, ed il rapporto tra i due risulta insipido anche per il giocatore più sensibile; sembra voler strafare, Monochroma, nel narrare tacendo, perdendo per strada molte delle possibilità che avrebbe potuto avere, se non avesse osato così tanto, ed è un peccato.


Salti in bianco e nero

Monochrome è un platform puzzle a scorrimento orizzontale, invero molto più puzzle che platform. Praticamente ogni sezione di gioco che ci troveremo ad affrontare sarà un enigma da risolvere, fatte salve le poche sequenze di inseguimenti in cui saremo costretti a fuggire dal già citato energumeno. Gli enigmi sono tendenzialmente stimolanti, mai troppo difficili, ma spesso neanche così immediati. Vengono limitati da un sistema di controllo spesso inefficace, che obbliga il giocatore a rifare gli stessi passaggi più e più volte, per problemi del gioco e non per propria incapacità. I momenti in cui è necessaria tanta precisione nell’esecuzione non sono molti, è vero, permettendo di relegare questo difetto tecnico in un angolo, visto che non è poi così influente nello svolgimento del gioco, ma era mio dovere segnalarlo. Altro problema limitato, ma comunque presente, è la confusione di alcuni momenti in cui, per colpa della palette cromatica adottata, non si distinguono alcuni elementi dello scenario a cui è necessario aggrapparsi per proseguire. Sono, come già detto, problemi marginali, ed il gioco fila liscio per tutte le sue due / tre ore di durata. Per chi volesse allungare un po’ il brodo sono presenti diversi segreti da trovare, decisamente ben nascosti. Inoltre è possibile caricare in qualsiasi momento una qualsiasi parte del gioco già superata, così da non dover rigiocare il gioco dall’inizio alla fine per terminare la raccolta collezionabili.


Cose tecniche, più nere che bianche

La parte tecnica di Monochroma è un po’ il tallone d’Achille di tutta la produzione, e poteva già essere evidente dalle critiche mosse ad un sistema di controllo non proprio precisissimo. C’è qualche glitch, nulla di grave o in grado di creare seri problemi, ma è giusto segnalarlo. Il problema vero è però strettamente connesso a quello che vediamo a schermo, decisamente inferiore a quanto il gioco non facesse tempo fa su PC. Se la versione computer poteva vantare un discreto sistema di illuminazione e tanti altri filtri grafici, la versione console toglie tutto e lascia solo uno scheletro che mostra la debolezza dei modelli poligonali dei personaggi e degli ambienti. Sinceramente non credo che una console che riesce a muovere Rise of the Tomb Raider non potesse gestire 4 o 5 filtri in più in un gioco in cui non c’è nulla da calcolare. Ci mette una pezza, o almeno ci prova, un’art direction al limite del vorrei ma non posso, per cui vale lo stesso discorso fatto per la trama: il bianco e nero può essere una soluzione interessante, ma non rende automaticamente tutto artisticamente riuscito. Il prendere un solo colore, il rosso, e farlo spiccare dai toni di grigio, non serve se la scelta non è utile a dire qualcosa. Sembra, anche qui, che il gioco voglia risultare in qualcosa di più di quanto poi non sia in realtà. Almeno le musiche sono veramente notevoli.

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