The Last of Us Part II Remastered RECENSIONE Il capolavoro si riscopre roguelike

Recensito su PlayStation 5

The Last of Us Part II Remastered RECENSIONE Uno sguardo che uccide almeno quanto quelle braccia
Uno sguardo che uccide almeno quanto quelle braccia

C’è un sentimento specifico che ha fatto capolino in me quando ho avviato The Last of Us Part II Remastered, poco dopo l’arrivo del codice review: una sensazione di peso, sul cuore, sullo stomaco, sulla mia mente.

No, non il peso che probabilmente anche tu percepisci, legittimamente o meno, non la gravità (perdonami il gioco di parole) di un ennesima riedizione di un titolo Naughty Dog che, e subito parto aggressivo, come ogni altro videogioco o prodotto (d’intrattenimento o meno) non è tenuto a giustificare la sua esistenza agli occhi del tuo giudizio.

No, stranamente nemmeno il peso della narrazione architettata da Neil Druckman, per me ancora al limite della perfezione, salvo qualche problema di ritmo da comprendere come indissolubilmente intrinseco alla struttura ludica di The Last of Us Part II (ma su questo tornerò).

Il peso che percepivo e che mi ha assillato per gran parte del tempo che ho passato su The Last of Us Part II Remastered era… ansia. Era quel roco e buio mandibolare che, l’avevo dimenticato, rappresenta per me il combat system; non una critica alle sue componenti, ma un plauso alla riuscita della resa su schermo di un mondo che non ti lascia in pace, ma che anzi costantemente ti cerca.

“Il gioco esiste perché qualcuno ci interagisca.”

Non lo sanno in molti, e non è nemmeno un segreto così essenziale, ma The Last of Us Part I è il titolo che mi ha fatto capire che questo è quello che volevo fare della mia vita: parlare di videogiochi, certo, ma anche e soprattutto crearli. Ironico che non sia stato il suo canovaccio narrativo a intrigarmi (il mio obbiettivo È quello di diventare un narrative designer), quanto proprio il suo sfruttare a pieno e in modo quasi malizioso il medium videogioco stesso.

Abbiamo parlato di The Last of Us Part I e Part II a dismisura (recuperati la recensione originale di Marco Fazzini), quindi preparati ad una recensione leggermente diversa, che vuole più andare a parlare di legittimità e valore di gioco, rispetto a ripercorrere i virtuosismi tecnici del titolo Naughty Dog. Voglio spiegarti perché The Last of Us Part II cammina ai limiti della perfezione, e come in questa edizione Remastered riesca a spingere il suo messaggio ancora di più, sia in termini di qualità produttive che in fatto di “visione”.

DISCLAIMER: Non farò troppi cenni alla storia di The Last of Us Part II Remastered, una storia che amo nella sua complessità e che, soprattutto, è in tutto e per tutto aderente a quanto già visto nel titolo originale, ma mi dedicherò ad analizzarne i pilastri più (im)portanti, anche ai fini di questa versione di gioco costituita prevalentemente da una modalità roguelite a stage e alcuni bonus.

The Last of Us Part II Remastered RECENSIONE Gustavo e il suo banjo
Gustavo e il suo banjo

The Last of Us Part II Remastered RECENSIONE |
Un Videogioco con la V maiuscola, che lo si voglia o meno

Mi concedi due passi indietro e un leggero tuffo verso la pesudo-scienza del game design, ossia della creazione e definizione delle strutture ludiche che poi, grazie a programmatori, artisti, animatori, UX e UI designer, playtester, ecc, diventa “Il Videogioco”? Grazie, giuro che torniamo presto.

Il videogioco è una bestia difficile da definire, perché ha qualcosa che pochi (se non nessun altro) media hanno: l’interazione. È un’incognita che non va ignorata, e che anzi sposta talmente tanto l’asticella di quello che, a conti fatti, è un prodotto d’intrattenimento, da far rovinare molti dei discorsi nel pericoloso range dell’ “Arte”. Il gioco esiste perché chi ci gioca, ci interagisca.

Questa interazione richiede regole, esplicite e implicite, ma in particolare richiede un rapporto di fiducia, fra entità e utente, un patto che prende il nome di agency, termine particolarmente da localizzare in italiano. In soldoni questa altri non è che la sicurezza di un effetto, in-game, in seguito ad una qualsivoglia azione.

Ne parlo come di un rapporto di fiducia perché, esattamente come le relazioni che io e te abbiamo con le nostre amiche, i nostri genitori, i nostri colleghi, gioca su un equilbrio mai esplicitamente espresso, e di volta in volta ne detta confini e applicazioni ad personam (o, in questo caso, ad ludum).

Ci sono infatti titoli come Uncharted (giusto per prendere un’altra IP Naughty Dog), che ci piazzano con agilità e nonchalanche nei panni di un simpatico serial killer che ci sta simpatico perché è Nathan Drake, e che fin troppo bene segue i nostri comandi, siano essi un impossibile salto da un treno a pochi secondi dal precipitare giù da un burrone o una delle tantissime sparatorie del franchise. Dall’altro lato c’è, tra gli altri, The Stanley Parable, che sembra quasi disinteressato alla nostra agency e ci intrappola, sorridendo, in un loop (o forse è una spirale?) dal quale non c’è uscita nemmeno nella rottura del gioco stesso, che infatti Parable prevede e alla quale costruisce “attorno”.

Sono solo due esempi, ma puoi facilmente capire che ci sono mille modi di interpretare, rendere e rispettare quella fiducia, ed è in questo che The Last of Us Part I e The Last of Us Part II Remastered sfruttano perfettamente il fatto di essere videogiochi, ma nel contesto e negli autoimposti limiti di una serie nella quale, in modo originale, non sempre siamo padrone/i (o d’accordo) con quello che il nostro alter-ego sta facendo a schermo (Mel!).

“Quello che provi è legittimo… e scriptato quanto quello che succede a schermo. Devi solo rendertene conto.”

Sì, perché deve esserti chiaro, per l’ennesima volta: Naughty Dog e Druckman sono perfettamente consapevoli di quanto tu abbia odiato quel “Giorno 1” a sorpresa, o di quanto magari ti possa dar fastidio vestire i panni di qualcuno di cui capisci così poco le motivazioni, o, meglio, del quale disprezzi le scelte.

È tutto voluto.

Tu devi provare e stai provando esattamente quello che vogliono tu provi, quello che la struttura di design è lì per fare. In quanti altri medium possiamo arrabbiarci così visceralmente per le scelte del personaggio a schermo? Quanti ci spingono quasi a smettere di esperirli perché fisicamente non ce la facciamo ad andare oltre? Nessuno, perché è un privilegio del videogioco. In QUELLA scena tu volevi appoggiare il controller. Lo so perché volevo un po’ appoggiarlo anche io.

The Last of Us Part II Remastered RECENSIONE Ora sto coso fa schifo ad ancora più alta definizione
Ora sto coso fa schifo ad ancora più alta definizione

Spesso nelle mie recensioni e nei miei rantoli durante gli episodi di Sourcecast (sai che ce ne sono 3, ora, ognuno dedicato ad uno dei 3 grandi brand videoludici?) vi parlo di “coerenza”, e voglio sottolineare anche qui come sia proprio la coerenza la chiave della riuscita di un videogioco: ogni elemento del prodotto che abbiamo davanti gli occhi deve “parlare la stessa lingua” e mirare allo stesso bersaglio. Immagina Five Nights at Freddy’s ma la soundtrack è l’Inno alla Gioia in loop e ogni suono ambientale che senti è un diverso timbro dell’iper-memato “Signora i limoni!”: farebbe ancora paura?

“Il mondo post-Cordyceps vuole uccidere, per morire e rinascere.”

La coerenza di The Last of Us Part II Remastered si mostra in superficie ma parte dal sottostante e non troppo celato principale pilastro narrativo: il mondo post-Cordyceps è senza pietà, e vuole solo uccidere, per magari morire e rinascere senza di noi. Da qui tutto si allarga, come le ife del proverbiale fungo, e arriva alla splendida soundtrack di Gustavo Santaolalla (qui interpretabile nelle sezioni di Free Play con chitarra e banjo, uno dei tanti bonus di questa versione remastered), all’indubbia qualità tecnica del performance capture, alla bravura ultraterrena di Ashley Johnson, Laura Bailey, Troy Baker e Jeffrey Pierce, fra gli altri.

E sì, arriva anche alle meccaniche di gioco. Il combat system di The Last of Us Part II Remastered riflette perfettamente il privilegio di essere un videogioco, ribaltandolo sul proprio asse (e sull’ascissa tracciata dagli Uncharted) per portarlo a tono con quello che già la storia di Joel e Ellie ci racconta, un’affilata corda di violino che, pur nel contesto di un TPS tradizionale, si avvicina ad un altro genere, con nemici che non ci danno troppo respiro e una forte necessità a fare del proprio meglio con gli strumenti che ci sono stati dati o che troviamo attorno a noi.

Qual è l’altro genere nel quale uno o più nemici ci cercano incessantemente e senza apparentemente tregua e sembra sempre di avere giusto un paio di proiettili in meno di quelli che ci servirebbero per affrontare lo scontro con più serenità? Esatto, gli horror.

Con dei toni e ritmi affini anche a quelli di un gioco stealth, The Last of Us Part II Remastered (in modo più marcato rispetto a Part I) ci piazza in mezzo a scontri che, sulla carta, rappresentano la potenziale antitesi del concetto di roguelike: i nostri nemici sono sempre più di noi, più aggressivi, più armati e più motivati a scovarci. È anche per questo che, per mezzo secondo, ho avuto un dubbio nel momento in cui qualche settimana fa Naughty Dog ha annunciato questa versione e la modalità No Return: come puoi incastrare un combat system così con una struttura così dinamica come quella di un roguelike?

Ogni run è profondamente diversa dalla precedente e dalla successiva”

Beh, bene, a quanto pare! Sì, perché la modalità No Return funziona benissimo, tanto da riuscire ad esaltare ancora di più le meccaniche di gioco presenti nella “campagna”. Usando la location del rifugio sopra il cinema come hub, The Last of Us Part II Remastered ci dà giusto quel che ci serve per comprendere le basi della struttura ludica di questa sua componente: qui scegli quale dei “percorsi” seguire, qui puoi potenziare il tuo equipaggiamento fra uno stage e l’altro, qui puoi scambiare i crediti ottenuti negli scontri con altri oggetti di morte, o interessanti.

The Last of Us Part II Remastered RECENSIONE Uno scenario che nessun abitante di Jackson vorrebbe vedere realizzato
Uno scenario che nessun abitante di Jackson vorrebbe vedere realizzato

All’inizio avremo sbloccate solo le versioni base di Ellie ed Abby, ma presto scopriamo che al completamento di determinate sfide (e.g.: uccidi 3 nemici in rapida successione, o elimina tutti i nemici di uno stage in stealth, ecc.) potremo sbloccare nuovi personaggi, con relativi perk, e nuovi costumi e skin per i nostri personaggi (Abbie punk arrabbiata è assolutamente una delle mie preferite). Non si parla solo di vezzi estetici, ma di piccole modifiche al gameplay che rendono ogni run leggermente o profondamente diversa dalla precedente e successiva.

Ogni stage ha poi in sé diverse strutture e mod: non sono solo cambi di mappa, ma numerose variazioni sull’aggressività dell’approccio dei nostri nemici (idle, ricerca attiva, o sanno direttamente dove sei nel momento in cui spawnano nella mappa), sulle nostre e loro statistiche (uno stage con due bloater a salute aumentata e uno shambler non lo consiglio a nessun*), su quello che ci viene richiesto per superare lo stage (a ondate? a tempo?), più alcuni piccoli twist che non voglio troppo spoilerarvi. C’è sempre una ragione e un modo per fare le cose diversamente, e raramente mi sono sentito costretto ad un approccio e non ad un altro.

Ognuno dei personaggi sbloccabili (10 in tutti quelli disponibili) ha qualche perk specifico che, oltre ad aderire molto piacevolmente alle caratteristiche offensive del personaggio stesso (Lev ha pistola e arco, Mel ha più efficacia curativa, ecc), permette un livello di varietà e variabilità molto elevato. Anche il numero di mappe è più che efficace, e sono tutte zone prese direttamente dalla campagna, con il negozio di materiali per la casa e Jackson ben piazzate nella mia particolare top.

A voler cercare un piccolo difetto posso esprimermi sulla relativa mancanza di dialogo o voiceover da parte di Ellie o Abbie, cosa alla quale sicuramente il gioco originale non ti abitua, fra commenti sul prossimo obbiettivo o ragionamenti a voce alta, ma posso capire che sia al limite dell’impossibile inserire dialoghi e frasi che, dopo la 18esima run, ancora siano interessanti e suonino “freschi”. È un silenzio comprensibile, quindi, e aiuta ad aumentare la tensione di ogni scontro.

“È da prendersi come una modalità da giocare una volta ogni tanto, in brevi ma ripetute sessioni

Il senso di progressione, essenziale nel contesto roguelike (qui maggiormente di riferimento rispetto a quello dei roguelite), aderisce alla pesante lentezza di quanto ci viene mostrato nella “campagna” di The Last of Us Part II Remastered, e ho la percezione sia più da prendersi (più roguelike di così è impossibile) come una modalità da giocare una volta ogni tanto, e non, in un dovuto parallelismo con il DLC di un’altra maior vis Sony (God of War Ragnarok Valhalla), come una componente di gioco da spulciare rapidamente, e della quale narrativamente cibarsi.

Considerando l’indubbia (via alle litigate!) qualità di The Last of Us Part II Remastered nella sua componente single player, già di per sé questa modalità No Return vale assolutamente il costo di 10€ di upgrade o, se ancora non lo si fosse giocato, l’acquisto di questo pacchetto completo, ma è un altro l’elemento che credo renda questa Remastered almeno interessante, se non imprescindibile, per gli appassionati dei dietro le quinte o, perché no, proprio a chi ha la fortuna (e la maledizione) di farli, i videogiochi.

Questa nuova edizione del titolo comprende in fatti i cosiddetti “Lost Levels”, 3 sezioni di gioco della durata di 5 minuti ciascuna che non hanno mai visto la luce: queste sono tutte introdotte da Druckman in un breve video che spiega il motivo dietro l’esistenza di queste sezioni e, a volte, perché esse sono state eliminate; una volta avviate, avremo modo di esplorare un piccolo spiraglio del game dev, con asset non finalizzati, audio mancante, animazioni mozzate, e tanto altro. Sparsi nei livelli ci sono poi degli oggetti interattivi che, con un voice over, spiegano ancora meglio le intenzioni di queste particolari sezioni di gioco, e come si sia arrivati a determinarne la non-essenzialità.

In “Blood, Sweat and Pixels” di Jason Schreier c’è una frase che dovremmo tutt* tenere a mente: “alla fine dei conti, è un miracolo che QUALSIASI gioco veda la luce”. Questi Lost Levels sottolineano benissimo la natura fragile del mondo dello sviluppo di videogiochi.

La modalità roguelike vale il (ri)acquisto?

The Last of Us Part II Remastered è una valida aggiunta al roster Sony, pur nella sua natura di ennesima edizione di un titolo che abbiamo visto e rivisto uscire più e più volte. Se i 10€ dell’upgrade risultano quasi dovuti, anche solo per l’integrazione completa al Dualsense e i Lost Levels, la modalità roguelike No Return è un’inaspettata aggiunta di valore al titolo, capace di esaltare ancora di più i lati positivi del combat system e di immergerci in una sfida davvero accattivante in modi non troppo distanti dal ben più complesso Returnal d’inizio generazione, che attorno al concetto e agli stigmi del roguelike ci ha costruito l’intera esperienza di gioco.

Che tu non abbia mai giocato il titolo originale o che tu sia anche solo lontanamente interessat* a ciò che questa nuova modalità ha da offrire, con The Last of Us Part II Remastered avrai di che giocare, e gioire, e arrabbiarti. Tutto secondo i piani, naturalmente.

9.9
Una valida aggiunta al roster Sony

Pro

  • La modalità roguelike No Return non ha diritto di funzionare così bene
  • L'integrazione delle funzionalità Dualsense si notano, anche se non troppo pesantemente
  • I Lost Levels sono un ottimo sguardo ai dietro le quinte del game dev
  • Rigiocare questo titolo è sempre un rollercoaster emotivo...

Contro

  • ... ma la campagna principale rimane praticamente la stessa
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