Uncharted: Golden Abyss – Recensione Uncharted: Golden Abyss
“…that’s what she said”
Quando pensiamo alle console moderne, nella mente di molti noi aleggia un senso di profondo disagio. Un tempo, assumeva grande rilevanza l’impiego strategico da parte dei costruttori hardware di simboli-mascotte nelle campagne promozionali, nei bundle che accoglievano il neofita e soprattutto nei grandi giochi che erano di leva in quella che di lì a poco si sarebbe poi definita, con l’avvento di internet e la sottocultura del gamer, come console-war. Ora, invece, solo Nintendo sembra mantenere quell’estetica da regime totalitario, iconica e immutabile: sembra proprio che gli stendardi dei suoi nuovi concorrenti, Sony e Microsoft, siano infatti effimeri, fuggevoli, mercenari ben poco duraturi. Così, se in un cambio generazionale abbiamo assistito al passaggio di staffetta avvenuto tra Halo e Gears of War su Xbox, allo stesso modo ci siamo poco a poco abituati ad associare la figura di Nathan Drake (e con lui il brand di Uncharted) a Playstation 3.
Per molti, di conseguenza, l’annuncio di Sony che prevedeva Uncharted: Golden Abyss come titolo di lancio della nuova console Sony è stato visto come un mezzo piuttosto evidente per raggiungere lo scopo di dimostrare quel tanto sbandierato PS3-like experience, slogan monocorde che giocoforza accompagnerà il life-cycle di PsVita a lungo. Così, in maniera non molto diversa dalla prassi della Hollywood dei nostri giorni, L’abisso d’oro si presenta quale prequel basato su un franchise entrato nell’immaginario collettivo dei gamer, benché una parte di questi non abbia nulla a che fare né con la serie né con le console Sony, né tanto meno con il genere di appartenenza. Tuttavia, la serie di Uncharted ha di fatto il merito di aver dato ai giocatori di tutto il mondo, per prima, una prova importante e indiscutibile della potenza tecnica capace dalla console ospitante: le aspettative associate a questo capitolo della saga sarebbero dunque proprio quelle di ricreare intenzionalmente quella fase di stupore inebetito e genuina incredulità che ha caratterizzato ogni capitolo della serie, solo in versione portatile (ma anche un po’ più nerd, suvvia). Un modo, detto altrimenti, per innalzare fin da subito un pilastro a difesa per eventuali minacce esterne: l’ultima nata in casa Sony fa sul serio, sembrano volerci dire i ragazzi di Bend, e Drake ha tutte le intenzioni di dimostrarlo. Vediamo come.
Tutti sanno, nel cinema come nel videogame, che il prequel ha orrore per il vuoto narrativo, il terrore del rispetto della continuità. Ma la struttura autosufficiente degli episodi di Uncharted fa sì che, sebbene con qualche anno in meno sulle spalle e qualche capello bianco in meno in testa, la nuova avventura narrataci non sfiori minimamente il pericolo di risultare posticcia o meno seducente: aperto il sipario, le luci funzionano a dovere, la scena si illumina e Nathan Drake ci coinvolge come sempre con il suo humor terribilmente scontato e perfettamente recitato, accompagnato dalla sua inconfondibile quanto tragica maglietta in qualche modo perennemente imbrattata.
La storia prende inizio questa volta con Drake insieme al collezionista, nonché sua vecchia conoscenza, Jason Dante immersi nelle profondità della per gran parte inesplorata foresta dell’America Centrale. Una volta incontrata Marina Chase, nipote di un famoso archeologo, vedremo il plot imbrogliarsi ben presto: scopriremo dunque che a seguire le tracce del popolo di Quivira sono in realtà molti, ognuno ovviamente alla ricerca delle stesse rovine, ognuno ovviamente per ragioni differenti… E il tutto scorre come da copione, con il cast intento a gestirsi tra rivalità sopite, lotte intestine e romanticismo rigorosamente politically correct. Da sempre quintessenza dell’avventura, anche questo capitolo di Uncharted ci porterà così alle porte di ogni sorta di remoti luoghi sacri, nel cuore di obliati siti storici o al cospetto dei paesaggi più grandiosi. E una volta circondati dalla magnificenza cromatica della natura e dalla potenza ammaliatrice di architetture misteriosamente immagazzinate nel tempo create di volta in volta dai programmatori, il gioco mostrerà ben presto una cura straordinaria rivolta a un titolo portatile. Non si può non restare sinceramente impressionati da quanto proposto a livello produttivo: interamente doppiato, ben scritto e supportato da una realizzazione tecnica d’altissimo livello, Uncharted: L’abisso d’oro perde giusto il confronto quasi solamente coi suoi stessi, mastodontici, precursori, ma si dimostra serenamente capace di affrontare e superare con successo molte delle avventure pensate per home console odierne in ogni comparto. Ed è forse questo paragone inevitabile la più grande imperfezione nell’ultimo titolo Sony: nella composizione di Bend si percepisce l’assenza dell’atmosfera di grande capolavoro che spirava durante le partite dei capitoli casalinghi, quasi fosse un retrogusto solo un po’ amaro a un piatto tutt’altro che cattivo.
Nonostante più giovane, e anzi, forse proprio per questo, Drake è in grado ora di fare molte più cose di quante non ce ne abbia fatte vedere nel suo pur breve passato (futuro?) di avventuriero. Inoltre, è più che chiara la volontà degli sviluppatori di utilizzare il gioco quale showcase per le nuove funzionalità di Vita, aggiungendo qua e là un “tocco” di novità alla ricetta di gioco. Scalare, arrampicarsi o gettarsi da un precipizio all’altro viene reso fluido e scorrevole, ad esempio, dal tracciare sul touch screen il percorso desiderato (solo laddove avremo pareti scalabili, come sempre riconoscibili da quel luccichio tipicamente videoludico che contrassegna e separa senza errore gli elementi interattivi da quelli puramente ornamentali). Totalmente facoltativa, questa soluzione significa assegnare l’incombenza di tenere lo stick analogico nella stessa direzione per diverso tempo senza togliere nulla all’esperienza di gioco ma, di fatto, snellendola apprezzabilmente. O ancora, la possibilità di proiettare al nemico le granate grazie a un tocco a schermo arricchisce l’operazione di una preziosissima e insostituibile precisione. Infine, persino il combattimento a schermo si difende bene rispetto a quanto lecito pesare: agire sullo schermo nel momento giusto aggiunge vigore alla cinematica a schermo, non senza un grado di atavica soddisfazione che dona il toccare direttamente l’avversario piuttosto che l’agire per procura caratteristico del martellare su un singolo tasto. Questi tre elementi hanno però sicuramente un carattere in comune: sono solo una possibilità, in parte già vista in altre produzioni mobile e, seppur operando alla perfezione, non fanno che aggiungere poco all’offerta ludica del titolo.
Ma ciò che più lascia frastornati, inizialmente, e rende entusiasti, poco dopo, è la doppia configurazione del sistema di puntamento. In L’abisso d’oro si mira con il secondo stick analogico e con il giroscopio interno della console. La profondità ludica di questa scelta è rivendicata violentemente tanto dalla dimensione dello schermo (se Uncharted nasce per le televisioni moderne, la sua versione portatile si vede addensata entro i soli cinque pollici di Vita) quanto dalla compiutezza e insieme felice riuscita della stessa. Spostarsi per larghe vedute nell’accertamento del campo nemico avviene tramite la leva analogica destra, veloce ma giocoforza approssimativa rispetto a quanto avviene su home console; una volta avuto il bersaglio a portata di tiro, invece, calibreremo la mira muovendo Vita sino a colpire con letale accuratezza: l’illusione di imbracciare un’arma è impressionante e dona una fisicità alla partita assolutamente inattesa. Così, piuttosto che essere due alternative in competizione, i due sistemi di controllo coesistono, complementari, proprio come se uno tendesse naturalmente a equilibrare l’altro. Lo zoom del fucile da cecchino si spinge ancora più in là, potendo sfruttare touch panel frontale, touch pad posteriore (senza dubbio il più comodo) o i tasti della console, risultando confortevole per qualunque tipo di esigenza.
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