Psicologia e Videogame: Chi siamo quando giochiamo
Il processo di promozione dell'identità attraverso i videogiochi.
Nella vita quotidiana, che si sia uomini o donne, grandi o piccoli, è pratica comune immaginare di essere qualcun altro: i bambini nei loro giochi, gli attori su un palco o davanti all’obiettivo di una telecamera.
I videogiochi hanno aperto una nuova affascinante frontiera per la conoscenza che comprende una sorta di sperimentazione di se stessi: non a caso tale opportunità offerta dalla tecnologia videoludica segue di pari passo l’evoluzione strettamente tecnica e grafica dei prodotti e dei dispositivi, nel senso che i videogiochi, dai primi prodotti costituiti da simboli e luci che garantivano più o meno complesse stimolazioni e interazioni, hanno presto cominciato ad acquisire importanti connotazioni narrative. Si sono insomma trasformati in storie, fatte di personaggi, ambienti, incontri, emozioni e colpi di scena.
Il prodotto videoludico è a oggi, nella quasi totalità dei casi, un articolato e complesso veicolo di messaggi ed esperienze, il quale fornisce innanzitutto la possibilità di immergersi in un ambiente variegato e definito e molto spesso all’interno di (o in relazione con) un personaggio che in esso può agire e comunicare.
Analizzando psicologia e videogame è quindi possibile affermare che i videogiochi, da questo punto di vista, hanno la particolare caratteristica di “promuovere l’identità”. Giocare a un videogioco, significa immettere parte di se stessi in un mondo virtuale che spesso ci spinge a riflettere, a prendere decisioni e a intrattenere relazioni, e tutto ciò tramite un “personaggio” che ci identifica e con cui ci identifichiamo, mettendo in pratica quella che è la prima forma di gioco sociale: Il gioco indentitario, quello che i bambini o le bambine fanno quando “giocano” a fare la mamma o il papa, per esempio.
Ma cosa è il concetto di identità in un contesto di psicologia e videogame?
Dal punto di vista psicologico, l’identità corrisponde a un costrutto potenzialmente fluido e modificabile, composto dalle convinzioni riguardo a noi stessi e alla valutazione emotiva che tendiamo a dare di esse. Non si tratta di un’informazione stabile e potenzialmente sempre identica, simile a quella riportata sui documenti. Il celebre psicologo tedesco Erik Erikson (1950) immaginava l’intero sviluppo del ciclo di vita (dall’infanzia alla vecchiaia) come una serie di sfide e dilemmi il cui obiettivo finale consisteva, per l’appunto, nella comprensione e definizione di se stessi.
L’identità è dunque considerabile come qualcosa che viene costruito durante l’esperienza quotidiana ed è potenzialmente sensibile a numerosi cambiamenti: si tratta di un costrutto naturalmente disposto alle modificazioni, alle sperimentazioni, all’apertura alle nuove esperienze come possibili fonti di sviluppo e approfondimento.
Nell’essere umano è insita la capacità di assumere temporaneamente un’identità differente rispetto alla propria, senza che tale pratica rifletta la presenza di una dissociazione patologica: nel corso della nostra vita ci siamo infatti “sperimentati” spesso attraverso l’assunzione di modi di fare e di essere, cercando di riconoscere quelli che meglio potevano rappresentarci. Tornando nel campo di psicologia e videogame, immedesimarsi in un’altra identità, o crearne una per giocare, non sono processi superficiali che una volta concluso il gioco lasciano indifferente la nostra psiche; al contrario si tratta di pratiche che hanno un effetto sulle nostre emozioni, sui nostri pensieri e sul nostro comportamento, come testimoniano gli studiosi delle attività di role-playing (Boccola, 2004; Capranico, 1997) e i creatori di veri e propri metodi psicoterapeutici basati sull’assunzione di ruoli e identità stabiliti (Kelly, 1969, 1991).
Secondo altre importanti teorie, l’identità non è unica: Tajfel e Turner (1986) ritengono che l’individuo possegga numerose identità, corrispondenti ai gruppi sociali ai quali appartiene; il contesto in cui ci troviamo può spingerci ad agire in diversi modi, a partire per esempio da un “livello del sé” personale, familiare o nazionale (Hogg e Turner, 1987).
Parlando puramente di psicologia cosa accade nel contesto dei videogame?
Nella maggior parte dei videogiochi il giocatore è tenuto a muovere e nello stesso tempo interpretare un personaggio, in grado di agire nel mondo di gioco, modificarlo, prendere decisioni morali ed etiche, comunicare con altri giocatori, ed esprimere emozioni. Gee (2003) ha formulato una teoria che sistematizza il gioco identitario in tre entità distinte; l’esperienza del mondo virtuale tramite un personaggio coinvolge:
- Identità reale quella della persona seduta davanti al dispositivo;
- Identità virtuale le caratteristiche del personaggio che si muove nel videogioco;
tra di esse, sussiste una terza identità detta:
- Identità proiettiva che consiste delle rappresentazioni, dei significati e dei caratteri selezionati che dall’identità reale vengono trasportati in quella fittizia.
Questa terza identità si caratterizza in quanto “canale” di trasmissione di informazioni che permette un effettivo legame tra l’esperienza psichica dell’io e la sua manifestazione in un mondo generato dal computer attraverso un personaggio ben determinato e in esso inserito. Ne risulta quindi una “zona” psichica di liminalità (Waggoner, 2009) tra il reale e il virtuale che attribuisce all’identità in primis la capacità di permettere all’utente di sperimentare un vissuto all’interno di un ambiente che differisce da quello fisico, in cui si trova il suo corpo.
“Quando gioco, sono sia il giocatore che il personaggio nello stesso momento”.
Le ricerche di psicologia applicate al mondo dei videogame si sono concentrare sulle caratteristiche di customizzazione dei personaggi, allo scopo di evidenziare quali caratteristiche delle personalità reali tendono a essere privilegiate nel contesto della proiezione nel mondo virtuale; tali ricerche partono dal concetto di videogioco come “laboratorio per l’identità” (Turkle, 1997).
In termini tecnici, quando ci si riferisce alla nostra estensione dell’identità in un mondo virtuale, qualunque essa sia, dalla la foto di profilo di una chat, al personaggio del nostro videogame preferito, ci si riferisce a tale “estensione” con il termine avatar.
Nei videogiochi, la corrispondenza tra l’azione dell’utente e il comportamento di una figura sullo schermo è presente sin dalle origini: già nello Space War del 1961 di Martin Graetz e colleghi, considerato da molti il primo videogioco (Rabin, 2010), l’utente era tenuto a guidare un piccolo triangolo (che simboleggiava un’astronave) in uno spazio stellare e a colpire ed evitare gli altri oggetti che gli gravitavano intorno.
Nella psicologia ecco il concetto di avatar definito nei videogame
La nozione di avatar in campo neo-mediatico emerge per la precisione dopo l’uscita, nel 1985 del videogioco Ultima IV: Quest of the Avatar per Apple II e appare strettamente connessa a una forma digitale di aspetto umanoide: nel contesto di Ultima, il termine avatar identificava un singolo personaggio ed era ancora legata all’accezione mitologico-spirituale della parola, che deriva dal sanscrito e si riferisce alla “discesa” di una divinità in esseri o cose, a un atto di incarnazione.
Possiamo considerare un avatar come “tutto ciò che rappresenta l’utente e può essere oggetto del giudizio e della percezione degli altri”. (Nakamura 2002)
Esistono fondamentalmente tre funzioni che definiscono la nozione di avatar:
- Avatar Relazionale: si tratta di avatar che hanno il solo obiettivo di identificare l’autorità dei messaggi, dei commenti e, in generale, degli atti comunicativi dell’utente. Ci si riferisce innanzitutto delle immagini presenti nelle chat e nei social network. L’avatar relazionale serve primariamente per esprimere pensieri ed emozioni.
- Avatar Agentivo: si tratta in questo caso degli avatar che riproducono fisicamente delle azioni, gestite dall’utente attraverso comandi più o meno complessi, all’interno di un ambiente virtuale. Si tratta degli avatar dei videogiochi, appunto.
- Avatar Ibrido: Si tratta dell’avatar tipico dei videogiochi on line e che svolge sia funzione agentiva che relazionale.
Scendendo più a fondo nell’analisi di psicologia del fenomeno avatar nel contesto dei videogame appare importante mettere in luce una ulteriore differenziazione che definisce il concetto di avatar e che deriva dalla tipologia di gioco che stiamo giocando:
- Avatar Estensione: il personaggio è più o meno “libero” o meglio “vuoto” dal punto di vista dell’identità, e mi è permesso inserirvi me stesso come personalità.
- Avatar Alter Ego: il personaggio è differente da me e sono tenuto a “prendere” la sua identità così com’è allo scopo di godere delle proprietà di fiction dell’ambiente virtuale: posso immedesimarmi interamente o, in alternativa, guidare le sue azioni in assenza di uno sforzo identitario e seguire le sue reazioni autonome come uno spettatore esterno.
Sempre parla di pura psicologia applicata ai videogame possiamo fare un semplice esempio:
Gli FPS utilizzano un avatar in prima persona, significa che l’utente vede sullo schermo soltanto le mani e l’arma impugnata nel contesto di una visuale in soggettiva.
In DOOM, il reboot della serie di grande successo che ha consacrato gli FPS negli anni 90, il personaggio che controlliamo e che interagisce con il mondo di gioco è praticamente nullo dal punto di vista psicologico, non conosciamo il suo nome, il suo volto non si vede mai, e non si sente mai nemmeno la sua voce, la sua personalità è praticamente inesistente e tutte le sue azioni corrispondono interamente alle scelte del giocatore: quest’ultimo può agevolmente “inserire” la propria identità nel personaggio che si muove nell’ambiente virtuale e attribuirgli, dal punto di vista narrativo, quelle che sarebbero le proprie reazioni, emotive e cognitive, a ciò che accade nell’ambientazione fantascientifica della storia. In questo caso siamo dinanzi ad esempio di Avatar estensione.
Ciò non è possibile in personaggi come Sam Porter Bridges, il protagonista dell’ultima fatica di Hideo Kojima, Death Stranding, gioco in terza persona nel quale il personaggio che controlleremo appare estremamente delineato e strutturato fin dai primi fotogrammi ed espressioni facciali del protagonista e prime linee di dialogo del gioco. Qui il nostro Sam Porter Briges rappresenta un Avatar Alter Ego.
L’avatar estensione è quello che maggiormente interessa uno studio dell’identità: i rappresentanti più importanti di questa categoria sono infatti gli avatar dei videogiochi RPG in cui il personaggio viene creato da zero e personalizzato dall’utente. Creare un personaggio/identità, o acquisirne uno modificandone alcune caratteristiche, significa mettere in atto un processo identitario nel senso che le regole e le opportunità offerte dal medium mi muovono a utilizzare del materiale dell’io per dare vita a una rappresentazione di me stesso che può avere in comune con me più o meno tratti fisici e caratteriali.
Gli avatar Ibridi la funzione sociale e comunicativa dell’identità tra psicologia e videogame
Tutte le più recenti trattazioni di psicologia nel contesto dei videogame che parlano dell’esperienza dell’utente attribuiscono grande importanza al gioco on line. Giocare nella solitudine della mia stanza, a un videogioco che soltanto io posso vedere, è ben diverso dallo sperimentare attraverso il mio avatar un mondo ove si muovono altri avatar comandati da persone vere, i quali possono entrare in relazione con me, stabilire con me rapporti importanti, collaborare in vista di obiettivi comuni o giudicarmi, sfidarmi e mettermi alla prova. Mentre gioco, la presenza degli altri mi appare nei termini della comunità (nei confronti della quale sviluppo il senso di appartenenza), della partecipazione (che mi muove ad attuare comportamenti di cooperazione/competizione) e della “audience” (le mie azioni vengono riconosciute e/o giudicate dagli altri). Che cosa hanno a che fare tali aspetti sociali con la creazione/acquisizione di un’identità? È importante notare che la socialità percepita dell’ambiente virtuale ha effetti importanti sul modo in cui mi approccio a esso. Sapere che nell’ambiente in cui mi muovo sono presenti altre persone caratterizza potenzialmente ogni mia azione in termini comunicativi: significa che, quando gioco a un MMO, so di essere potenzialmente sempre in relazione con gli altri giocatori.
Questo irriducibile aspetto di relazione è presente al giocatore quando si appresta a creare il suo personaggio e si lega al concetto di intenzione comunicativa. Creare un avatar e caratterizzarlo in un certo modo costituisce un atto comunicativo che vuole generare degli effetti sugli altri
Nell’identità proiettiva si fondono la nostra identità in gioco e la nostra identità reale. Questo accade quando percepiamo che gli obbiettivi che ci dà il gioco sono anche i nostri obiettivi. Nel momento in cui accettiamo e definiamo obiettivi per un avatar, allora diventiamo coinvolti nell’avatar stesso: quegli obiettivi diventano “i miei obiettivi”, gli obiettivi dell’“avatar-me”. In uno spazio sociale, come quello dei MMO, il processo è ancora più complesso e interessante. Entrano in gioco i rapporti sociali tra diversi “avatar-me”, che implicano a loro volta diversi rapporti fra la persona e il suo avatar. Questo offre agli individui l’opportunità di divertirsi ad ampliare e a inventare nuove strategie sociali per esistere nel di gioco permettendo di sperimentare un senso di identità fluido e ampio, potremmo dire espanso, che si riflette anche nella realtà.
Con questo si conclude un altro importante capitolo della nostra disamina di psicologia e videogame.