The Walking Dead: The Final Season Episode 4 – Recensione

Recensito su PlayStation 4

Ci sono volte nella vita, in cui si ha la sensazione di aver sprecato il proprio tempo. È una delle sensazioni peggiori che una persona possa provare, perché accompagnata da un vuoto nel petto, un sentimento d’impotenza e dalla convinzione di non aver imparato nulla da quell’esperienza. Chi sta scrivendo questa recensione ha vissuto questo stato d’animo non appena terminato il quarto e ultimo capitolo di The Walking Dead: The Final Season.

Take Us Back“, questo il nome della conclusione della storia di Clementine, è un episodio da amare o odiare e che con le sue due ore di durata riesce a fare da discriminante nella mente del giocatore tra un’opera ben riuscita, pur con i suoi alti e bassi, o un lavoro forzato verso un senso unico per compiacere i fan affezionati alla protagonista.

L’autrice di questa recensione ha vissuto circa la metà dell’episodio con una visione appannata dalle lacrime, poi sfociate in confusione e infine in rabbia mista a delusione. The Walking Dead: The Final Season porta al pettine tutti i nodi in “Take Us Back”: episodio leggermente più breve rispetto agli altri, vede i “cattivi” sconfitti, alcuni morti, altri feriti, altri ancora furibondi ma comunque in fuga. Clementine e i suoi amici si allontanano rapidamente dalla nave distrutta, per tornare all’istituto che è ormai la loro casa; ovviamente gli attori in scena dipendono dalle scelte compiute dal giocatore sino a quel momento e, altrettanto ovviamente, la via del ritorno è costellata da contrattempi, litigi e veri e propri guai.

È un peccato che un personaggio come la sorella sopravvissuta di Tenn sia trattato con una simile rapidità, senza speranza di redenzione per le sue azioni (cosa che invece viene concessa a molti altri comprimari); è un peccato che “gli adulti cattivi” vengano immediatamente dimenticati e trasformati in “pericolo ormai superato”, solo perché la protagonista è stata in grado di neutralizzare il loro principale esponente; è un peccato che (qualora sia ancora vivo) la figura di James, così tormentato dai rimorsi di coscienza e a modo suo ancora inquietante e ambiguo finisca a lamentarsi e piagnucolare su decisioni che non lo riguardano minimamente, perdendo quasi del tutto il proprio fascino.

Pur con una durata inferiore rispetto agli altri episodi, “Take Us Back” riesce a essere tanto verboso quanto vuoto: la sensazione è che si sia dato un brutale colpo di spugna a tutta la narrazione costruita nel corso di tre episodi, per focalizzarsi sul dramma personale di Clementine e AJ. Lee, figura chiave per la sopravvivenza e maturazione della protagonista, già apparso nel corso degli episodi precedenti, questa volta viene inspiegabilmente ignorato. Il motivo potrebbe essere la – comprensibile – decisione degli sviluppatori di concentrare l’attenzione su AJ, che adesso è anche la voce narrante all’inizio dell’episodio.

Che il passaggio del testimone tra lui e Clementine fosse inevitabile era chiaro fin dall’inizio della stagione, come era anche chiaro che l’ashtag #StillNotBitten non fosse stato scelto a caso per rappresentare il messaggio dietro The Walking Dead: The Final Season; l’ovvio realizzarsi di certi eventi non li rende comunque meno dolorosi, merito di una cura certosina nella presentazione registica delle sezioni finali di gameplay, non a caso estremamente simili all’ultimo episodio della prima stagione sia per contesto, che per atmosfera e inquadrature.

Il pianto, per un affezionato della serie, arriva spietato: ogni scambio di battute tra Clementine, AJ e gli altri personaggi riaffiora brutalmente, i puntini si uniscono, tornano prepotenti i ricordi delle ultime parole di Lee, il suo pallore, l’amore e l’istinto protettivo che lo spingono a investire i suoi ultimi rantoli in raccomandazioni e consigli per la piccola Clem. Il cerchio sembra chiudersi, la (quasi sempre) realistica spietatezza del mondo di The Walking Dead non risparmia nessuno, men che meno i bambini e questo The Walking Dead: The Final Season lo ha dimostrato fin troppo bene, con giovanissimi e giovanissime morte nelle maniere più atroci e senza alcuna zolletta di zucchero a indorare la pillola. Sono presenti come al solito esagerazioni e piccole sospensioni dell’incredulità, ma si tratta di leggerezze presenti fin dal principio della serie e che arrivati alla quarta stagione passano praticamente inosservate.

La fretta con cui vengono chiuse quasi tutte le linee narrative passa in secondo piano di fronte alla conversazione tra Clementine e AJ, un bambino tanto intelligente quanto problematico e che è uno dei rarissimi casi in cui un protagonista così giovane risulta convincente e non fastidioso: simpatico, bisognoso d’affetto e contatto umano, ma anche cinico e calcolatore al punto da sfiorare la sociopatia, incapace d’esprimere bene ciò che prova e confuso dagli insegnamenti di Clementine, la quale è consapevole della sua ignoranza, incerta e spaventata da una realtà in grado di terrorizzare chiunque non sia un mostro.

La decisione di fidarsi o meno della capacità di giudizio di AJ determina quale finale attende il bambino alla fine dell’episodio; tuttavia, The Walking Dead: The Final Season riserva ancora una grossa sorpresa per i giocatori, quella discriminante sopracitata che rende l’intero viaggio di Clementine un’importante, agrodolce memoria o un inutile investimento di tempo ed emozioni.

È possibile acquistare i più costosi, eccellenti ingredienti e impiegare il migliore e più moderno dei forni, ma se non si conoscono dosaggi e tempi di cottura non c’è buona volontà che tenga per salvare il dolce che si voleva preparare: The Walking Dead: The Final Season è stato salvato da Skybound dopo il fallimento di Telltale Games, riportato in auge sui social degli sviluppatori, eretto a simbolo d’amore per il proprio lavoro e per la community.

Eppure, il messaggio d’amore dietro The Walking Dead: The Final Season sarebbe potuto essere infinitamente più potente se solo si fosse osato di più (nemmeno troppo se si considera l’amarezza di buona parte dei finali delle precedenti stagioni): non importa cosa accade alle persone che si amano, loro rimangono sempre a vegliare e proteggere; il dolore e le disgrazie non possono cancellare i ricordi e i sentimenti e come Clementine vede Lee nei suoi sogni, allo stesso modo AJ non si sarebbe mai sentito solo anche nella peggiore delle situazioni, consapevole grazie agli insegnamenti ricevuti che la ragazza non l’avrebbe mai abbandonato del tutto. La coscienza, l’identità di un essere umano non possono essere piegate, uccise o infettate come il suo corpo e per quanto soli ci si possa sentire, per quanto orribile possa essere la vita dopo una pandemia apocalittica, qualcuno ha amato qualcun altro così tanto da sacrificarsi e far sì che i sopravvissuti possano andare avanti e creare un mondo migliore… Perché la vita di chi si ama conta sempre più della propria.

Ma Clementine è Clementine e lei “non è stata ancora morsa”. Per questa ragione, si è preferito una finale cheesy che accontentasse la minoranza rumorosa e non la maggioranza silenziosa, quella che avrebbe voluto vedere un AJ più consapevole e meno allegro chirurgo improvvisato. Qualunque tipo di spiegazione degli ultimi avvenimenti è del tutto assente, sia in forma di flashback che di semplice e conciso dialogo o perplessità da parte dei comprimari: tutto sempre perfettamente normale agli occhi di tutti, tranne che a quelli di chi gioca. È possibile foderarsi gli occhi e godere del raggio di sole e speranza mostrato a schermo, facendosi guidare più dal cuore che dalla ragione, empatizzando con Clementine, AJ e i loro nuovi amici, finalmente liberi (così pare) dalla minaccia dei predoni e anzi, incredibilmente proni a incontrare altri sconosciuti avvistati nei dintorni, facendo così saltare l’ultimo briciolo di segretezza e copertura della loro casa. La conclusione appare talmente raffazzonata e confusa che Michael Kirkbride, sviluppatore e scrittore del gioco, si è sentito in dovere di scrivere su Reddit una (comunque forzatissima) spiegazione degli eventi avvenuti offscreen.

Non una parola viene spesa per i caduti, ma trattandosi per buona parte di giovanissimi è comprensibile che certe realtà non siano il principale argomento di discussione davanti un pasto caldo; non un istante viene investito per dare un ultimo saluto a Lee, personaggio martirizzato e fin troppo beatificato durante quattro, lunghe stagioni, ma che avrebbe comunque meritato un addio migliore. Non un dubbio viene sollevato sul basilare funzionamento di un corpo umano, dando per scontato che la plot armor di AJ si estenda per contatto anche alle persone a lui care.

La persona che sta scrivendo questa recensione è rimasta profondamente turbata dalla negazione di ciò che è sempre stato The Walking Dead della fu Telltale Games, dimenticato in vece di un sorriso forzato sui volti dei protagonisti e per niente giustificato dall’oggettiva situazione in cui si trovano. Per arrivare a questo finale è stato versato il sangue di decine e decine di personaggi, alcuni innocenti, altri meno, ma nessuno di loro ha ricevuto giustizia e la morte di Lee, pubblicata nell’ormai lontano 2012, risulta oggi ancor più difficile da mandar giù.


“Take Us Back” di The Walking Dead: The Final Season cerca di far felici tutti, dimenticando per strada diversi personaggi e linee narrative, realizzando un’eccellente scena d’azione finale ma zuccherando oltre ogni necessità una storia nata per essere amara. La storia di Clementine era comunque destinata a concludersi e rimane quindi il dubbio su diverse scelte prese dagli scrittori, che hanno incastrato la giovanissima donna in un limbo d’incertezze avvolte da una velina di speranza e pace che non ha nulla a che vedere con il mondo di The Walking Dead.

6.2

Pro

  • Esteticamente sempre appagante
  • Eccellente regia delle ultime sezioni
  • Il personaggio di AJ si conferma convincente

Contro

  • Troppe questioni rimangono in sospeso
  • Personaggi chiusi in fretta e furia
  • Finale inspiegabilmente unidirezionale
  • Lee è il grande assente
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