[RETRO] Half-Life 2 – Recensione

King of the Hill

Chi ha vissuto (ludicamente) quel periodo, ricorda certamente che nel 2004 tre sparatutto si contendevano il titolo di gioco con miglior grafica: uno è ovviamente il recensito, gli altri due sono Far Cry e Doom 3. In generale, la critica riconobbe vincitore il terzo episodio della storica saga di John Carmack, per varie ragioni di natura tecnologica: uso estensivo del bump mapping, ombre meglio definite, illuminazione dinamica. Tutte cose mancanti dal motore Source di Half-Life e che lo rendevano apparentemente meno appetibile. Ho detto apparentemente.
Il vincitore non era incontrastato: la superiorità degli effetti dinamici di Doom 3 si scontrava con la versatilità di un motore scalabilissimo e che sacrificava tali aspetti per fornire una maggior fluidità in ambienti molto più vasti e ricchi di dettagli. Sono pro e contro differenti e che vanno incontro a differenti necessità di design: i corridoi claustrofobici e oscuri del titolo di IdSoftware godono appieno delle qualità grafiche di sé stesso, e probabilmente se fosse stato con il motore di Valve non avrebbe sortito lo stesso effetto. Di contro, la leggerezza di quest’ultimo ha permesso di usare texture più definite e un più alto numero di poligoni, specialmente per quanto concerne i personaggi. La verosimiglianza di questi ultimi è merito soprattutto delle animazioni facciali: i volti dei personaggi hanno oltre 40 “muscoli” e nel motore è incorporato un software in grado di muovere le labbra adattandosi in tempo reale alla onde sonore della voce.
Aldilà di ogni estetismo, c’è comunque un motivo di fondo per il quale il Source era, in realtà, il vero re: la tecnologia applicata al gioco. Laddove Doom 3 non ha fatto altro che mettere in mostra i muscoli, Half-Life 2 ha reso “giocabile” il motore, fornendo un sacco di oggetti regolati dalle leggi del motore Havok (il più popolare physics engine di terze parti) ma soprattutto permettendone l’interazione con uno strumento che elevava enormemente il suo gameplay, ovvero la già citata gravity gun.
Forse oggi può sembrare riduttivo, ma allora non esisteva ancora alcun gioco in grado di rendere funzionale un aspetto così “superficiale” come la grafica.

La gravity gun e i nostri alleati

We don’t go to Ravenholm

L’idea di fondo di uno sparatutto è, banalmente, avanzare e raccogliere armi piazzate un po’ ovunque per uccidere le centinaia di nemici che si incontrano nel corso dell’avventura. L’originalità con cui essi vengono affrontati è la chiave, e sotto questo punto di vista abbiamo già visto come Half-Life 2 esca vincitore, ma non sono spiegazioni sufficiente per giustificare come un gioco piuttosto duraturo come questo non risulti noioso sul lungo periodo.
Andiamo dritti al punto: siamo di fronte ad un capolavoro di design di livelli e nemici. Molti giochi d’azione (soprattutto oggi) non fanno altro che piazzare un tipo di avversario da affrontare ripetutamente per poche ore, in scenari spesso riciclati o eccessivamente popolari. Half-Life 2, al contrario, offre una grande varietà di situazioni in ambienti originali ed inusuali: in quanti Fps capita di affrontare zombie, soldati tecnologicamente evoluti e mostri insettoidi, presenti in modo intelligente e senza far sembrare tutto un misto senza senso? Ai fini della narrazione, la presenza di creature così diverse è giustificata dal background già iniziato nel primo Half-Life, e per quanto concerne il gameplay ogni area di gioco è caratterizzata da minacce specifiche. Il primo scontro avviene logicamente con i soldati Combine all’interno della città, e sono caratterizzati da un AI sufficientemente abile da permettergli di usare tattiche di accerchiamento e coperture, nonché darsi alla fuga quando il pericolo incombe, tant’è vero che è praticamente impossibile riuscire a colpirli con una granata senza che si voltino e scappino. Ovunque c’è il Combine, c’è la tecnologia: ogni avamposto è caratterizzato da strutture metalliche di fattura aliena, e spesso e volentieri i soldati si supportano con l’uso di barriere energetiche, mine, torrette automatiche e droni plananti assassini (rispedibili al mittente con la gravity gun). Non mancano di supportarsi con artiglieria e mezzi corazzati, terrestri e volanti. In più di un’occasione occorrerà scontrarsi con truppe aviotrasportate e veicoli alieni intenti a farci fuori dall’alto.

Combine in azione

Lontano dalle zone più trafficate, in ambienti meno controllati e più insidiosi, spopolano gli “zombie”, già visti nel primo Half-Life. Sono i risultati degli effetti di creature parassitarie aliene che prendono il controllo di corpi umani, spedite sadicamente sul campo dagli stessi Combine. Come ci si aspetterebbe, sono lenti e stupidi, anche se sono state introdotte alcune varianti meno “docili”, ed un intero livello è dedicato esclusivamente a queste creature, facendo vivere un’esperienza horror certamente inattesa da un titolo con premesse fantascientifiche.
Le ant-lion, o formiche leone nella versione italiana, sono la vera novità della serie, e chi ha visto Starship Troopers noterà qualche somiglianza: queste creature sono presenti per un arco limitato di gioco nelle aree più rurali, e adorano uscire da sottoterra in massa ed assalire chiunque le disturbi appena si mette piede sulla sabbia. Sembra quasi di giocare al vecchio Dune II o di guardare un episodio di Tremors. C’è perfino una fase avanzata del gioco in cui è possibile controllarle, utilizzandole come un piccolo esercito da lanciare contro i Combine.
Ogni posto del gioco ha caratteristiche uniche e rappresenta un diverso grado di sfida: si passa da combattimenti estremamente movimentati in città, avanzando di scontro in scontro, a lente esplorazioni veicolari in aree extra-urbane, ove soffermarsi ad esplorare ogni casa e antro in apparente stato di abbandono, salvo poi trovare al loro interno trappole e zombie.
Tutte queste sono varie dimostrazione di come il gameplay cambi di pari passo con le ambientazioni visitate, sul quale ci si potrebbe soffermare a parlare ancora per ore, ma preferiamo esaminare altri aspetti che elevano l’esperienza di base.

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