The Gaming Society – Horacegate: realtà e influencing

Il duro scontro tra la YouTuber e il proprietario di Horace ci ha insegnato qualcosa: la "realtà" trionfa sempre sull'immaginazione. O presunta tale.

Benvenuti nella rubrica The Gaming Society, in cui analizziamo il fenomeno ludico e il suo solido intrecciarsi con la società contemporanea. 

Non disperate se avete perso le puntate precedenti, potete recuperarle tramite i link qui di seguito!

Puntata I – Il Game Over non è mai la fine

Puntata II – I videogiochi sono un mezzo di comunicazione?

Puntata III – Fortnite, la dipendenza ludica e il disinteresse dell’industria

Puntata IV –  Il futuro è nello streaming. Ma lo streaming è davvero il futuro?

Youtube e una serie di piattaforme simili hanno consentito una rapida diffusione della cultura a tutto tondo, in modo totalmente gratuito: una manna complessiva per l’umanità intera, spesso incastrata e imprigionata in scaglioni insuperabili, molte volte purtroppo per una mera questione economica, necessari per accedere alla cultura. Ma si sa, quando all’essere umano viene concesso il libero arbitrio, non sempre questo è utilizzato per fini superiori: spesso, infatti, codesto è utilizzato in modi e tempi alle volte bizzarri o pericolosi. Ma veniamo alla vicenda, di cui vi offrimmo già uno spunto narrativo, da cui partiremo ora per fare una piccola riflessione, in linea con la “universale” premessa: Octav1us, una youtuber che da qualche tempo aveva inserito il personaggio di Horace, vecchia (e trascurabile) icona videoludica di decadi fa, nei pezzi introduttivi, è stata costretta dall’attuale proprietario del marchio e autore di alcuni reboot hardware di console che furono, Paul Andrews, a rimuovere qualsiasi presenza dello strambo bipede. Naturalmente la questione ha fatto insorgere il mondo ludico, che ha subito preso le difese della influencer. Una situazione partita come un Davide contro Golia, ma che subito si è rivoltata a sfavore della YouTuber: Andrews ha infatti sottolineato che, alla base della sua dura richiesta, ci fossero mesi di silenzi da parte della Youtuber sulle richieste dello stesso Andrews, che non avrebbe gradito innanzitutto la “sessualizzazione” del personaggio e il suo utilizzo, senza autorizzazione, per la produzione di giocattoli. Mesi in cui, stando alle parole di Andrews, lui avrebbe cercato una mediazione, proponendo anche la destinazione di una parte dei ricavi in beneficienza, ricevendo silenzi, disinteresse e rifiuti netti.

Horace

Nonostante la situazione sia ancora ben lungi dall’essere davvero chiara, come spesso accade, la community si è subito infervorata nel difendere il presunto “Davide”, senza conoscere quantomeno la versione di “Golia”. Immaginando di trovarsi dinanzi all’ennesimo caso di un “adulto coi soldi che bullizza un ragazzino”, una discreta fetta dei fan della succitata Youtuber (ma anche una buona fetta di chi ha scelto questa fonte di reddito come mestiere), è partita subito a rispondere al fuoco nemico. Anche con l’infangare (ma quando non si hanno grandi argomenti, funziona così) l’opera intellettuale Horace, considerata dimenticata, dimenticabile e una mera imitazione di Pac Man. Vero? Falso? Non sta a noi deciderlo: se sin d’ora nessuno ha denunciato è perché, forse, nessuno ci vede una reale somiglianza. E il raggiungimento della fama, non da maggior importanza: ogni opera intellettuale va egualmente difesa. Ma infangare lo stesso Andrews, tacciato di egoismo, copyright bullying e altre amenità classiche di un mondo che fatica a rapportarsi con la realtà delle cose, è l’esatta espressione di una larga fetta di quella che è, contenusticamente parlando, spesso una pericolosa scatola vuota: l’influencing. La situazione, al momento, sembra essere ad un punto di svolta: la stessa Octav1us ha dichiarato di aver raggiunto un accordo con Andrews sulla questione.

Come detto, la prima operazione è stata quella di dipingere il buon Andrews come un mostro money-hungry, alla ricerca del quarto d’ora di popolarità e di ricavare soldi dagli sforzi di una ragazzina. Tutto giusto: peccato che, come al solito, il mondo dell’influencing (e relativo stuolo di fan) cerchi, come spesso accade, di “levitare” sulle leggi, sui modi e le convenzioni e, in generale, sulla vita reale, per abbandonarsi nel proprio ristretto universo fatto di boccacce gratuite, schemi di marketing di grandi aziende e reclamé pubblicitarie sottilmente imbastite come se fossero critiche, opinioni e divertimento orchestrato per sembrare il più naturalmente divertente possibile. Il tutto condito dal solito serpeggiante parassitismo concettuale: «imbastisco uno show mostrando pezzi di proprietà intellettuali altrui e li ritengo miei contenuti, quindi soldi miei». E, ogni qual volta il mondo reale entra e buca il sogno, ovvero le camerette agghindate di taluni (le stesse che, poi, a conti fatti non esistono davvero), in modo da essere “rispettosi” dell’immaginario di chi li segue, iniziano i rantolii, i piagnistei e le proteste sulla libertà d’espressione e sul lavoro svolto: insomma, il lamentìo «ma è la sua unica fonte di reddito/ci ha speso centinaia di ore di lavoro», fa dimenticare che l’uso improprio di un marchio o di contenuti non creati direttamente, senza autorizzazione e relativo riconoscimento economico a chi li possiede, è calpestare «la fonte di reddito» e le «centinaia di ore di lavoro» (o soldi investiti, che significano solitamente “centinaia di ore di lavoro”) di qualcun’altro.

The Gaming Society Horace

«Non è tutto connesso ai soldi», diranno in molti: ma le web-star non lo fanno per soldi? Il mondo dell’influencing, in tutte le sue sfaccettature, va regolamentato e normalizzato ed è una fondamentale necessità: molti si fermano a parlare solo delle star (che, naturalmente, da pochissimo tempo e per le cifre da capogiro che guadagnano, sono ormai troppo in vista per non pagare tasse e mettersi in regola), ma ignorano la pletora sterminata di chi, arraggiandosi con cifre comunque di tutto rispetto e che toccano quelle di un normale impiegato, aleggiano come una sorta di ectoplasmi sulla legalità e sull’etica. Sulla legalità, perché spessissimo (ma soprattutto in passato), si ometteva il pagamento delle tasse, oppure si “tirava a campare” sfruttando marchi in modo improprio. Perché, un influencer medio, crea contenuti formalmente ma, in linea di massima, quasi tutti sopravvivono appoggiandosi a qualcosa di cui non sono oggettivamente creatori, frammentando le informazioni e incorniciandole in know how pseudo-attoriali: spettacoli creati con materiale altrui, sfruttando strategie altrui e tecnicamente impostate sul lavoro altrui. Naturalmente, c’è tanta gente in gamba che informa, crea e lavora per informare: ma è un’esigua minoranza (purtroppo). Ma, altrettanto naturalmente, spesso si incappa in figuri sfrontati, al limite dell’analfabetismo cognitivo e che si ammantano di auctoritas senza essere nemmeno in grado di usare il periodo ipotetico correttamente: il tutto, vendendosi al miglior offerente.

Un influencer di moda, ad esempio, non è quasi sempre una stilista né una modella, né tantomeno un critico che ha lavorato concretamente nel settore: aleggia con auto-assolvimento sul concetto di informare (spesso, in malo modo) facendo spettacolo (spesso in malo modo), trainata dalle reaction dei propri fan (accumulati facendo sovente copycating dalle web star più famose, a loro volta supportate da esperte aziende pubblicitarie), attingendo da Internet le informazioni necessarie per raggiungere uno status “estetico” di conoscitrice o, semplicemente, esponendo merce costosissima per compiacere le folle festanti che, per vari motivi, entrano in adorazione in larga parte perché non potranno mai permettersi quelle cose e quello stile di vita: un circo all’incontrario. D’altronde, poiché è in larghissima parte un lavoro di mero compiacimento estetico della platea (un influencer medio lavora alla propria figura in base alle reazioni delle persone, in modi non troppo dissimili da qualsiasi prodotto commerciale), non esiste una reale oggettività di comprovare la propria conoscenza perché, in larghissima parte, chi segue puntualmente perde molto velocemente interese nell’approfondire un determinato argomento e lo fa per seguire uno show gratuito, perché “il prodotto piace”. Ma l’imbroglio è proprio qui: una pubblicità è tale e lo sappiamo. Una web-star, invece, sarà sempre qualcuno che dà la sua opinione informata: fa nulla se le aziende lo paghino per farlo e lui abbia scarsamente comprovato la sua informatezza. It’s the show-biz, baby.

The Gaming Society Horace

L’altra fondamentale regolamentazione, che funziona per gli altri media ma non per gli influencer, dovrebbe valutare la funzione del 99.9% delle web-star attualmente attive: quello d’esser canali di pubblicità occulta, scatole colme di reclamé e strategie marketing basilari (non c’è bisogno di particolare complessità tattica, spesso chi segue è troppo piccolo anagraficamente per riconoscere le succitate strategie). E, nell’essere spettri che esistono contemporaneamente tra la pubblicità e l’informazione, in un mondo grigio e astutamente indistinto, se la cavano sin troppo bene. Se ogni influencer scrivesse sotto i suoi video la dicitura “è un video sponsorizzato“, annullando l’impressione che si tratti di qualcosa di spontaneo, il 99.9% di loro chiuderebbe il canale o, almeno, perderebbe una grande fetta dei suoi introiti. Il nesso è proprio questo: far pubblicità senza apparire una pubblicità, guadagnando soldoni dalle case madri che risparmiano altrettanti soldoni e ottengono reclamé molto più “potenti”. Il segreto è questo: «Ma non è uno sponsor, è lui che si diverte, quindi il prodotto vale». Tutto questo, avendo anche il catastrofico effetto (spesso potenziale ma altrettanto spesso concreto) di influenzare l’opinione e dirigere il gusto di una buona fetta di coloro che guardano e assistono (quanti ragazzini spendono montagne di soldi per shoppare, in una forma non troppo dissimile dal gioco d’azzardo, per mera imitazione socio-psicologica della web-star di turno?). Ecco perché (ma consideratela la modestissima opinione di chi scrive): dieci, cento, mille Andrews: l’influencing va reso “normale”. Ed è una priorità sociale.

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